L’ultimo a morire, in ordine di tempo, è stato, nel giorno dell’epifania, Antonio Staiano, cinquantanni, internato nell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa. L’ultimo di una lista con altre quindici persone, di età compresa tra i ventotto e i cinquantotto anni, morte (suicidio, malattia e uno per omicidio) negli Opg di Aversa, Barcellona Pozzo di Gotto, Castiglione, Napoli e Reggio Emilia, a partire dal momento in cui, nel 2012 è stata decisa la loro chiusura.
Su questo ultimo decesso ha aperto un fascicolo la procura di Santa Maria Capua Vetere, la stessa che lo scorso autunno, a conclusione di una indagine lunga tre anni, ha rinviato a giudizio per maltrattamenti, abusi e sequestro di persona, quindici tra medici e psichiatri dell’OPG di Aversa, incluso l’ex direttore, per episodi avvenuti tra il 2006 e il 2010. Un processo che se non darà giustizia, potrebbe almeno contribuire a ricostruire un tassello di storia che manca.
Ma cosa sta avvenendo, perché restano ancora aperte queste strutture che hanno meritato la definizione di “orrore medievale” nientemeno che dal capo dello Stato? Perchè, si continua a morire?
Come è noto, sulla spinta della Commissione parlamentare di inchiesta sul sistema sanitario, presieduta da Ignazio Marino, la legge 17 febbraio 2012, n. 9, aveva disposto la chiusura di questi luoghi per la data del 31 marzo 2013. Secondo le nuove disposizioni, le misure di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e dell’assegnazione a casa di cura e custodia devono essere eseguite, esclusivamente, all’interno delle strutture sanitarie, fermo restando che le persone che hanno cessato di essere socialmente pericolose devono essere senza indugio dimesse e prese in carico, sul territorio, dai Dipartimenti di salute mentale.
Tradotto, in termini pratici, la norma stanziava ben centosettantatré milioni di euro, da destinarsi alle Regioni, per costruire delle strutture sanitarie ad hoc, denominate REMS. Le Regioni hanno quindi presentato un programma per la costruzione delle Rems che prevedeva la realizzazione di novecentonovanta posti (articolati in trentotto strutture). Molti soldi per l’edilizia, quindi, poco o nulla per il potenziamento dei servizi di salute mentale. Per questo, sul provvedimento di chiusura non mancano giudizi severi, proprio dai più forti sostenitori dell’esigenza di superamento degli Opg. Maria Grazia Giannichedda, per esempio, presidente della fondazione Basaglia, sostiene che non è affatto vero che con questo provvedimento l’ospedale psichiatrico giudiziario venga abolito, soppresso o superato che dir si voglia. Non basta sostituire i sei manicomi giudiziari esistenti con piccole strutture, dice Giannichedda: “L’Opg non è solo un luogo, è un dispositivo solidamente ancorato al codice penale che ne definisce l’oggetto (l’infermo di mente autore di reato o il condannato che diventa infermo di mente), la forma (misura di sicurezza) e le funzioni (cura e custodia). E poiché il codice penale non si modifica per decreto tutto questo resta immutato”. Sono successivamente intervenute alcune modifiche per superare il meccanismo delle proroghe senza limiti delle misure di sicurezza per gli internati, ma è ancora presto per dire se saranno sufficiente a superare gli effetti dell’ergastolo bianco.
Naturalmente, per ragioni dovute ai ritardi burocratici ma anche all’ambizione del termine fissato, la data per la chiusura degli OPG è già slittata due volte, al 1 aprile 2014 e poi, con un decreto promulgato lo stesso 1 aprile dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano “con estremo rammarico” al 30 aprile 2015. Ma è ormai scontato che a breve si avrà una nuova proroga. Nella “Relazione sullo stato di attuazione delle iniziative per il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, aggiornata al 30 settembre 2014” trasmessa al parlamento dai ministeri della Giustizia e della Salute, emergono con evidenza i ritardi nella realizzazione delle Rems che portano a queste conclusioni. Secondo la relazione, “appare non realistico che le Regioni riescano a realizzare e riconvertire le strutture entro la predetta data (aprile 2015)”. Pertanto, sostengono dal governo, “sulla base delle valutazioni rese è quindi di nuovo auspicabile un ulteriore differimento del termine di chiusura degli OPG. L’anzidetta proroga, tuttavia, dovrebbe essere accompagnata dalla previsione di misure normative finalizzate a consentire la realizzazione e riconversione delle anzidette strutture entro tempi certi”.
Tutto inutile, dunque? Una riforma inutile, e che per di più sarà realizzata con ritardo? Non è proprio così, ma rischia di esserlo. Attualmente, con l’avvio del processo di chiusura si è ottenuta un significativa riduzione delle persone presenti in Opg, arrivando a registrare al 9 settembre 2014 una presenza di settecentonovantatré internati a fronte dei circa mille e duecento presenti nel 2010. Un risultato ottenuto con il potenziamento degli interventi dei servizi di salute mentale che finalmente, dopo anni di inerzia, hanno preso a farsi carico di internati privi di qualsivoglia pericolosità sociale.
A dimostrazione che più che pensare a costruire nuovi luoghi si potrebbero destinare ai servizi molta parte delle risorse destinate all’edilizia. I residui di manicomialità andrebbero superati attraverso la fine dei dispositivi di internamento che portano un sofferente psichico a entrare nel circuito penale, senza uscirne mai più, indipendentemente dalla gravità del reato commesso.
Dobbiamo sperare che queste vittime siano le ultime, che la violenza istituzionale dei manicomi, di ogni nome e dimensione, sia un ricordo consegnato al passato. Che gli ultimi a morire siano questi luoghi di riproduzione della violenza e non coloro che sono tristemente condannati ad abitarli. (dario stefano dell’aquila)