Se non fosse sintomo di un incontrollabile contagio, farebbe pure sorridere la schizofrenia con cui la stampa e la città esaltano, negli stessi giorni, le “napoletanità atipiche” di due grandi ormai del passato come Pino Daniele e Francesco Rosi, e il lavoro del più noto e a quanto pare apprezzato esponente dell’attuale cinema comico partenopeo, Alessandro Siani. Ora, Siani è uno che fa ridere, e la sua leggera comicità non è affatto stupida. Aveva vent’anni quando dagli schermi di Telegaribaldi dava vita, supportato dal suo autore storico Francesco Albanese, a personaggi divertenti, a cominciare dal tamarro Checco Lecco (smanicato, occhiali scuri, pantaloni verdi e See bianco) che era in una decina di tormentoni – ‘o frat’ tuoje ‘e capì? – il ritratto di una generazione. Dopo, ha portato a teatro spettacoli apprezzabili, giocando su un ritmo incalzante e su un linguaggio e una espressività da potenziale fuoriclasse; a differenza degli altri cabarettisti napoletani di quel periodo (ricordate quel tale Schettino?), che imperversavano nei circuiti locali e facevano capolino nelle trasmissioni della Dandini, ha resistito all’inevitabile logorio semplicemente rinnovando il suo parco battute, finendo per imporsi come “il comico napoletano dei Duemila”.
I guai sono cominciati quando ancora non pronto, e fomentato da paragoni fuori luogo con Troisi, Siani si è lanciato nel cinema. Ha radunato attorno a sé un gruppo di belle donne e di caratteristi di sicuro affidamento, oltre che qualche spalla “di lusso”, sperando che questo bastasse a reggere il gioco, sistematizzando in pellicola quelle due ore di battute che in televisione e a teatro funzionavano sempre, a parte rare eccezioni.
Ma non erano di certo soltanto questo, i film di Troisi e Verdone, due che pure venivano dalla televisione e prima ancora dai piccoli teatri, dagli sketch fulminanti, dal giocarsi tutto il pubblico in pochi secondi. Non una serie di battute infilate una dopo l’altra, ma dei film che stavano in piedi da soli, e non a caso Verdone nella sua opera prima lavorò seguendo i consigli di Sergio Leone, mentre Troisi conosceva, pur senza farsene vanto o ossessione, a memoria una buona parte dell’opera di Totò ed Eduardo.
Siani invece ha sprecato tutta la sua verve facendo, in una prima fase, sketch-movie come Ti lascio perché ti amo troppo e La seconda volta non si scorda mai,dei quali è stato sceneggiatore (senza contare i due “cinepanettoni” 2006/07) e poi rincorrendo storie un po’ patetiche e a buon mercato (Benvenuti al sud, al nord, all’ovest eccetera) fino a questo irrecuperabile Si accettano miracoli. Anche questa volta la trama è talmente semplice da risultare scontata: un giovane yuppiepartenopeo – ma dai buoni sentimenti! – si ritrova a frequentare la casa-famiglia di un piccolo paese della costiera gestita dal fratello prete, prossima alla chiusura per mancanza di fondi. L’unico modo per salvarla è inventarsi qualcosa, un miracolo magari (a questo punto tanto valeva ri-rubare il tesoro a San Gennaro), cogliendo al volo l’assist di una perdita d’acqua che bagna il volto alla statua di San Tommaso. Ma è un film, questo di Siani, che rende il comico napoletano un anti-Troisi, più che un suo discendente. Se i film di Troisi, infatti, o con Troisi, sono costruiti su una tematica generazionale (l’insicurezza del maschio di fine secolo e lo smarrimento di un napoletano che non sa corteggiare le donne, cantare serenate o fare guapparie) e sociale (l’eterno assistenzialismo nel miracolo di chi aspetta persino ca le cresce ‘a mano, oppure l’ostinazione a cambiare Napoli piuttosto che Rovigo), in quelli di Siani o con Siani il “senso” manca del tutto, e la storia è assente – ma i Monty Python facevano ridere anche senza trama –, abborracciata in copioni scontati e letti talmente tante volte da non dire mai nulla della città né dei suoi abitanti.
È un peccato, per chi si è tutto sommato sempre divertito alle battute di Siani, dover vedere film come Si accettano miracoli. Dover assistere alle solite imitazioni del passato (lo sketch della Smorfia che elemosinava grazie a buon mercato a San Ciro risale a metà anni Settanta, mentre Totò e Peppino chiedevano indicazioni stradali storpiando il francese già nel ’56), o sciropparsi una nuova favola sullo scampanato metropolitano e la ragazza non vedente di provincia, condita da gag imbarazzanti come quella del prete sordo e dei bagarini da chiesa, con tanto di (in)evitabili tarantelle e rumbe degli scugnizzi. Ancora meno digeribile risulta la morale finale, pronta a raccontarci che sì, se i napoletani sono uniti possono sempre, in un modo o nell’altro, farla sotto al naso all’autorità (qui vescovile).
Quello che più dispiace, in sostanza, è vedersi costretti a prendere un comico di talento che avrebbe potuto essere non un malriuscito rifacitore dei suoi predecessori, ma semplicemente un Alessandro Siani, e dover archiviare il suo lavoro dopo una manciata di film inconsistenti anche se di successo. Film, tra l’altro, talmente premiati al botteghino da lasciar difficilmente immaginare un cambio di rotta, nella speranza che Siani riesca a sfuggire a questo vortice che si è costruito con le proprie mani inventandosi qualcosa, come è giusto che faccia un artista valido. Per quello non è mai troppo tardi. O forse sì. (riccardo rosa)