da: Repubblica Napoli del 23 gennaio
Il primo omicidio dell’anno a Napoli è coinciso con il giorno del grande raduno in piazza del Plebiscito per ricordare Pino Daniele. La vittima, Ciro Esposito, ventun’anni, alcuni precedenti per spaccio di droga, è stato circondato da uomini armati in sella a motociclette e raggiunto da nove colpi di pistola, a pochi passi da casa sua, in via Sanità. Qualche giorno dopo, in seguito alla scarcerazione di Vincenzo e Ciro Di Lauro, figli del boss di Scampia Paolo Di Lauro, Roberto Saviano si chiedeva con domanda retorica se in tale occasione qualcuno avesse affisso sui muri del quartiere manifesti di protesta, così come accaduto un paio d’anni prima, quando si annunciava l’inizio delle riprese della serie televisiva ispirata al suo libro.
Al di là dei motivi polemici, la questione sollevata riguarda la capacità di incarnare la “voce” di un quartiere, o di una comunità, in occasione di eventi traumatici o in momenti di profonda crisi. In tempi di estrema fragilità dei sistemi di rappresentanza è rilevante capire quali soggetti, e con quali modalità, siano capaci di portare in superficie il sentire collettivo, tante volte incapace di sconfinare dalla sfera privata. Tra i casi recenti c’è naturalmente il ruolo di denuncia e allo stesso tempo di conforto degli afflitti che sta svolgendo la Chiesa nelle aree dell’hinterland napoletano interessate dagli sversamenti illeciti di rifiuti; oppure, su scala più ridotta, le manifestazioni di protesta organizzate dagli adolescenti del rione Traiano in seguito alla morte, per mano di un carabiniere, del giovane Davide Bifolco; da un lato il timore e l’insofferenza di molti prende corpo in una figura apparentemente solitaria, quella di don Patriciello, in realtà portavoce di un movimento di ampiezza crescente; dall’altro un grido quasi soffocato, raccolto da decine di coetanei del giovane Davide, che partendo dal loro rione ripetono per giorni un silenzioso pellegrinaggio verso il centro della città, quasi ad affermare la propria nuda esistenza, la ribellione all’invisibilità.
In entrambi i casi, per quanto pacifiche o propositive, tali iniziative non sono state accettate di buon grado da tutta l’opinione pubblica. A don Patriciello si rimprovera spesso di forzare i toni, di dipingere un quadro fin troppo fosco della Terra dei fuochi, creando uno stato di tensione che non facilita il compito di chi dovrebbe trovare delle soluzioni. Ai ragazzini del rione Traiano è stato immediatamente rinfacciato di non scendere in piazza tutte le volte che i camorristi ammazzano, spacciano, spadroneggiano nel loro quartiere. Un genere di rimprovero basato su una perversa inversione dell’onere della prova, per cui spetterebbe a certi soggetti, per il solo fatto di abitare in certi rioni o di appartenere a certe fasce sociali, dimostrare di non essere conniventi con la camorra.
L’interpretazione dei fatti richiede maggiore profondità e anche una certa dose di empatia. Prendiamo gli avvenimenti degli ultimi mesi in tante zone della città: Quartieri Spagnoli, Sanità, Ponticelli. Le statistiche dicono che gli omicidi sono in diminuzione, ma quel che si percepisce per le strade di questi quartieri è una sensazione difficile da tradurre in numeri. Lo stillicidio degli agguati, dei ferimenti, delle vendette annunciate, che pendono sulla testa di tutti come promessa di sparatorie a venire; le ronde di uomini armati in sella a moto di grossa cilindrata, per intimorire non solo i clan rivali ma l’intera popolazione, rimandano a un immaginario da far west, con la sfilata dei pistoleri sulla strada principale sotto gli sguardi attoniti dei passanti.
È semplice accusare chi abita in certi quartieri di non ribellarsi, di non attaccare manifesti, di non alzare la voce. Nella realtà, per esempio al rione Sanità dopo l’omicido del giovane Esposito, man mano che emergono i particolari dell’esecuzione, quel che sperimentano le persone è sgomento, paura, rabbia, ma soprattutto impotenza, mancanza di punti di riferimento, di canali adeguati per manifestare un rigetto, una reazione, una volontà contraria a questi eventi. Se nessuno attacca manifesti dopo la spietata uccisione di un ragazzo di vent’anni o dopo la scarcerazione di pericolosi criminali non è certo per ignavia e omertà. La reazione collettiva per manifestarsi deve trovare sponde efficaci, meccanismi di ascolto e mobilitazione che non riducano ogni reazione a un inutile sfogo.
Qualcosa si è mosso nel rione Sanità, dove la Rete delle associazioni ha riproposto un appello alle istituzioni che già nei mesi scorsi aveva originato degli incontri con l’amministrazione, purtroppo ancora poco proficui; in ogni caso, è un tentativo di guardare in faccia la realtà, anche andando contro narrazioni più ottimiste e benintenzionate, ma purtroppo parziali. Allo stesso modo, a Ponticelli nei giorni scorsi un centinaio di persone si sono ritrovate davanti al cinema Pierrot per cercare insieme una via d’uscita al clima di minaccia incombente. Sono tentativi per tenere unite le persone di fronte alla sensazione di abbandono, di sfaldamento dei legami sociali. La risposta alla violenza camorrista riguarda certamente la capacità di attivarsi e di venire allo scoperto dei cittadini, ma eguali se non maggiori responsabilità sono a carico di chi governa il territorio, e anche dell’opinione pubblica colta, che troppo spesso si nasconde dietro banali esorcismi, illudendosi che l’emergenza criminale colpisca solo qualche enclave del centro storico o i rioni della periferia, mentre riguarda ogni strada, ogni quartiere, ognuno di noi. (luca rossomando)