«Abbiamo perso la paura, vogliamo dare una risposta»; «Se consideriamo questo violenza, come consideriamo sparare alla gente che attraversa il Mediterraneo?»; «C’è più voglia di cambiare la società che paura».
Qualcuno gli ha chiesto cosa pensano, e loro hanno risposto. Sono le voci dietro i volti coperti, la gioventù ribelle dell’indipendentismo catalano, sono i messaggi che rimangono sui muri e le poche interviste in tv: tutti parlano di loro senza parlare con loro, ma sono tra i protagonisti più scomodi di questi giorni di mobilitazioni. Non sorprende che nessuno voglia ascoltarli, sono disturbanti. Parlano degli scontri come scene di un film e si fanno foto sui cassonetti in fiamme. Fortemente politicizzati o anche per niente, la traccia delle loro azioni, la più essenziale possibile, si rincorre tra canali Telegram e account Instagram. Si servono di bot per ripulire gli archivi e segnalano i punti di ritrovo e materiali da barricata incustoditi. Sono i figli del primo ottobre 2017, in molti hanno visto genitori e nonni colpiti a sangue per voler votare a un referendum. Conoscono la repressione dello stato spagnolo in un’Europa in cui nessuno gli crede, ascoltano la trap scritta nelle pause tra una barricata e l’altra che canta «voglio che mia nonna veda come la libertà vince».
Continuano in Catalogna (e non solo) le proteste per la sentenza del Tribunale Supremo. Nonostante la perfetta organizzazione dello sciopero e delle marce pacifiche, la protesta prende forme decisamente fuori dai soliti schemi dell’indipendentismo. A Barcellona le fiamme sono arrivate molto in alto, proviamo a fare un resoconto.
Tsunami Democràtic
La grande massa dell’indipendentismo catalano che punta su mobilitazioni non-violente, si è organizzata in questi mesi d’attesa delle sentenze sotto il cappello dell’entità Tsunami Democràtic. Entità che si manifesta con un account Telegram con all’attivo più di 350 mila iscritti, da cui vengono diffusi comunicati e istruzioni per operazioni a sorpresa, come quella dell’occupazione dell’aeroporto El Prat. Il canale è pubblico e raggiungibile, ma l’organizzazione anonima ha divulgato un link da cui scaricare una app scritta apposta per il ciclo di proteste, scaricabile e installabile su sistemi android. Si attiva tramite un codice QR, i codici sono distribuiti tra le persone più coinvolte, e possono essere letti per un massimo di dieci volte. Per chi non fosse pratico, è necessario essere fisicamente vicini alla persona che passa il codice per leggerlo da smartphone a smartphone, in questo modo la diffusione si basa sull’attività di circoli di fiducia.
Le Marce per la libertà
Le Marce per la libertà partono il 16 ottobre, erano pronte ad attivarsi il giorno della comunicazione della sentenza. Cinque cortei in autostrada di cento chilometri, da cinque diversi punti della Catalogna: Girona, Vic, Berga, Tàrrega e Tarragona, un meccanismo formato da centinaia di persone che si dividono i compiti, tra la preparazione del cibo, l’accoglienza nelle varie tappe, la somministrazione di acqua. Il cammino, dicono, è la metafora del percorso verso l’indipendenza.
Intanto la situazione a Barcellona, al terzo giorno della settimana di protesta, continua a essere molto animata. I CDR (Comitati di Difesa della Repubblica) convocano una concentrazione con coreografico lancio di carta igienica, e all’imbrunire compaiono gruppi informali di giovani che la polizia tenta di disperdere. Iniziano a manifestarsi gli abusi della polizia, ricompaiono le bales de goma, proibite ai Mossos, la polizia catalana, ma a disposizione della polizia nazionale. Ricompaiono insieme ai colpi alla testa, ai furgoni lanciati a tutto gas in mezzo ai cortei, a proiettili di foam sparati a breve distanza, mentre scompaiono spesso i numeri identificativi degli agenti. Entità e osservatori come Iridia denunciano: la violenza della polizia cresce in modo spropositato.
Il centro si incendia, i fuochi delle barricate si alzano fino a tarda notte, vista dall’alto la città ricorda scene del passato, quando Barcellona guadagnò il soprannome di Rosa de Foc. Ma siamo nel 2019, epoca in cui il dissenso politico si intreccia con le derive tardo-capitaliste e in giro puoi vedere lavoratori di Glovo sfrecciare davanti al fuoco di una barricata. Perché nella città in fiamme c’è chi non rinuncia a ordinare sushi a domicilio.
Lo sciopero generale
Il 17 ottobre è il quarto giorno di mobilitazioni. I CDR, che si ispirano all’Olimpiada Popular del 1936, decidono di portare il pallone in piazza, mentre insieme al corteo antifascista vogliono comunicare distensione. Fanno esercizio, giocano e urlano: «Le strade saranno sempre nostre», «Catalogna antifascista», «Via le forze di occupazione». La manifestazione è dichiarata conclusa in serata, ma c’è chi rimane a presidiare le strade. Nella stessa sera è prevista una manifestazione dell’estrema destra spagnolista. I corpi di polizia non intervengono in maniera efficace per separare le due fazioni e si creano incidenti. Un ragazzo viene aggredito da un gruppo di fascisti, incuranti dei numerosi obiettivi che li riprendono. Ancora una volta gli antifascisti vengono aggrediti dalla polizia con proiettili di gomma.
Convocato da Intersindical-CSC e Intersindical Alternativa de Catalunya, lo sciopero generale del 18 ottobre parte da istanze lavorative e sociali per poi arrivare alla violazione dei diritti civili. Alle 7:30 del mattino sono già bloccate tutte le arterie fondamentali della Catalogna. I blocchi cominciano anche a Barcellona, mentre nel quartiere di Gracia si impedisce uno sfratto e i lavoratori del porto attraversano via Laietana cantando in castigliano: «Nuestro pueblo no se toca». I Pic-nic per la Repubblica organizzano un sit-in alla Sagrada Familia che impedisce l’entrata o l’uscita per un po’. Decine di turisti scattano foto e garantiscono alla notizia di finire sui giornali di mezzo mondo.
L’arrivo a Barcellona della Marce della Libertà è anticipato di qualche ora: sono state velocissime. Nonostante la stanchezza, sembra che la gente non veda l’ora di arrivare e con un passo da otto chilometri orari, verso le 13:30 la piazza dei Jardinets de Gracia è già animata da un formicolio di persone. Si unisce allo sciopero la manifestazione studentesca. Le marce hanno coinvolto lungo il cammino centinaia di manifestanti. Il centro di Barcellona è stracolmo, non ha più nemmeno importanza quale sia il luogo delle concentrazioni, la gente è dappertutto. La polizia municipale conta in città circa 520 mila persone, forse si arriva a un milione. In testa ai cortei si leggono slogan come: “La lotta è l’unico cammino”, “Non è giustizia è vendetta”.
A via Laietana, poco più tardi, inizia un nuovo confronto tra manifestanti e polizia nazionale, con massiccio uso di lacrimogeni e proiettili di gomma. In poche ore le fiamme delle barricate tornano a monopolizzare lo spazio sui media. La notte tra il 18 e il 19 si consuma la battaglia più violenta della settimana. I Mossos intervengono per la prima volta con una camionetta-idrante, comprata negli anni Novanta e mai utilizzata. Turisti impavidi e influencer posano davanti al fuoco, spesso pagando cara l’imprudenza.
La gioventù ribelle si riconvoca per il sabato sera, mentre inizia il balletto delle dissociazioni dei politici e i tentativi di avvicinamento della società civile. Si dice da più parti di non criminalizzare i giovani. Rufìan, uno dei leader di Esquerra Republicana, decide di presentarsi alla concentrazione ma viene allontanato per non aver difeso la rabbia giovanile. Tutti vogliono capire cosa succede, e nel dubbio prendono l’iniziativa. Centinaia di persone si organizzano per formare un cordone-cuscinetto tra la polizia e i più giovani. Dopo cinque ore di sit-in davanti alle forze dell’ordine che minacciano almeno sei volte di intervenire con una carica per disperdere la concentrazione, ottengono il ritiro delle camionette. Hem guanyat, “abbiamo vinto”, cantano abbracciandosi, ma almeno altre due barricate ardono in un altro punto della città.
La Barcellona silenziosa
Una parte della popolazione rimane a guardare, si chiude in casa, modifica gli orari delle attività, spossata da un conflitto in cui spesso non sa come posizionarsi, o che condanna fortemente invocando il ritorno alla quiete. C’è chi contesta lo sciopero, chi si è visto distruggere il negozio e chi ha le macchine in fiamme, chi sta respirando fumo nei quartieri da giorni, chi ha paura. Gli hotel vedono cancellate le prenotazioni, chi è già in città capita che decida di tornarsene da dove è venuto, in generale sorprende la mancanza quasi totale di informazione, che condiziona sia i lavoratori che i visitatori. Le strutture turistiche tendono a non allarmare i clienti per non perdere soldi, ma si ritrovano a dover gestire rabbia e paura.
La piega che prenderanno le mobilitazioni dei prossimi giorni è difficile da prevedere. Ciò che sembra chiaro è che c’è chi è disposto a mettere in gioco moltissimo. Il bilancio della prima settimana è di 579 persone ferite, 179 detenute, 21 carcerate, 19 ospedalizzate, 60 ferite tra la stampa e almeno quattro occhi perduti a causa dell’uso delle famigerate bales de goma. Anche a Madrid la manifestazione solidale di ieri, con circa quattromila persone, è stata caricata dalla polizia.
Mentre questo articolo viene pubblicato, continuano a essere convocati blocchi stradali, presidi e nuove manifestazioni contro la repressione in tutta la Catalogna. Accanto al dolore e alla confusione di molti, convive un’estrema determinazione. Come cantano i giovani sulle barricate: «Seguendo il sogno con le cicatrici sul petto». (testo di giusi palomba, fotografie di federica zampognaro e collettivo el poble)
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