È stato pubblicato in questi giorni il numero monografico di Cartografie sociali, la rivista promossa da Urit – Unità di ricerca sulle topografie sociali dell’Università Suor Orsola Benincasa, dedicato alla domanda: “Cosa resta del manicomio?”. Nel volume, curato da Elena Cennini e Antonio Esposito, con un approccio multidisciplinare e intergenerazionale, ricercatori, studiosi e operatori si interrogano sulla persistenza di logiche e prassi di internamento, costruendo, al contempo, una mappatura delle esperienze sanitarie, sociali e culturali che in Italia si confrontano con l’universo della salute mentale. Di seguito si propone un estratto del saggio “Democrazia-manicomio: una contrapposizione solo apparente”, di Assunta Signorelli, psichiatra basagliana e femminista non pentita, protagonista del processo italiano di deistituzionalizzazione, antesignana, con Centro Donna a Trieste, di un approccio di genere in psichiatria.
Oggi, in ospedale, si vive in modo doloroso la negazione della propria fisicità da parte dell’organizzazione ospedaliera, che si declina sulla cancellazione dei corpi e sulla riduzione della sofferenza umana, cioè della malattia, non a sintomo come avveniva un tempo (e anche ciò non era per l’umano piacevole), ma a protocollo. Protocollo, forse, figlio della medicina difensiva, ma di fatto fondato sulla convinzione che i corpi, così come la natura li ha concepiti, non servano più: sono pesi ingombranti da nascondere e manipolare per poterli usare come oggetti nel mercato della vita. Corpi cui è negato il dolore, il piacere e il sentimento, che inverano nel loro esistere la profezia di Pasolini che, già negli anni Settanta, denunciava la violenza sui corpi come il dato più macroscopico della nuova epoca umana. Forse da questa profezia dobbiamo ripartire, assumendo il dato della violenza sui corpi e della scissione corpo/ragione come il focus di una nuova riflessione che deve saper coniugare pensiero e pratica, il dire e il fare, in un continuum che non conosce cesure […].
In passato, a proposito del lavoro di chiusura del manicomio di Trieste, ho affermato come, con uno sguardo di genere, la deistituzionalizzazione possa essere narrata quale un susseguirsi di pieno e vuoto, di scomposizioni e ricomposizioni, di quelli che Basaglia chiamava i “cento fiori”, alcuni i più preziosi, che durano solo lo spazio di un mattino, della naturale alternanza fra gioia e dolore non secondo copione, ma a partire dai moti del sentire umano. In un’epoca segnata da forme di comunicazione mediatica, distante dalla materialità concreta, che riduce tutto a un’immagine asettica e patinata, dove anche l’esperienza primigenia del parto subisce una sterilizzazione virtuale che occulta gli umori e la sporcizia nella quale naturalmente avviene, tutto ciò può sembrare anacronistico. Da parte mia sono convinta che, proprio nel recupero di quella parte aspra e contraddittoria della trasformazione, si celi l’attualità dell’esperienza di deistituzionalizzazione avvenuta a Trieste e che ormai si è definitivamente conclusa. Come negare l’attualità che si ritrova nel movimento dei sussidiati del 1972 in lotta per il riconoscimento del diritto al reddito, nello sciopero delle pulizie delle donne ricoverate per rivendicare il diritto al lavoro, nell’occupazione della “Casa del marinaio” per il diritto alla casa, e in ultimo, ma non minore, nell’occupazione del tribunale di Trieste per il riconoscimento del movimento delle donne come parte civile di un processo per stupro del 1977. Tutti episodi, questi, che hanno segnato l’esperienza triestina, determinando rotture e contrapposizioni interne cui Basaglia partecipava come uno del gruppo, certo il più importante, ma non sempre decisivo. Significativo il fatto che, alla fine, difficile dire come, il gruppo trovava una sua ricomposizione nella tensione comune al cambiamento. Ognuno di questi passaggi andrebbe ripreso, perché foriero di luci e ombre, ma non è questa la sede. Qui, basta l’accento su come, in quegli anni, la centralità della persona veniva agita a partire dal riconoscimento dei suoi bisogni primari, che lo riportavano nel mondo della “normalità”, riconoscimento reso possibile da una pratica fondata su cinque parole (mi piace nominarle le cinque A del genere), quali accoglienza, ascolto, accudimento, abitat (che io scrivo proprio così) e autonomia. Parole che, nel mentre si dipanano, costringono chi opera ad assumere fino in fondo la contraddizione di una tecnica costantemente in bilico fra abbandono e controllo. Questo stare in bilico, sul margine, come dice Bell Hooks [pseudonimo di Gloria Jean Watkins, scrittrice femminista statunitense, ndr], ti costringe a trovare sempre nuovi equilibri, a dar vita a istituzioni aperte, fondate sullo scambio e sulla reciprocità, avendo sempre presente la necessità che non si tratta di “dare voce” ma di mettere l’altro, altra in condizione di prendersi la parola.
È questo prendere parola che ormai è scomparso, anche a Trieste (perciò ho parlato di esperienza conclusa): le persone con sofferenza psichica, costrette in gruppi istituzionalizzati, quali sono i gruppi di auto-mutuo-aiuto (i gruppi di self help), non hanno alcun potere decisionale, ma solamente consultivo (a conferma di questo basta consultare i regolamenti dei Dipartimenti di Salute Mentale sparsi nella nostra penisola). E non sembri provocatorio questo dire: in questi gruppi sono presenti ruoli istituzionali con, sulla carta, funzioni di facilitazione, ma, nella pratica, queste funzioni diventano direttive del gruppo nel suo complesso […].
Oggi è necessario riflettere sull’esperienza di distruzione del manicomio dislocandosi fuori dalla retorica corrente che, enfatizzandola, sorvolando sulle contraddizioni e sugli errori che ogni azione umana porta con sé, l’ha come imbalsamata in una sorta di favola bella, ponendosi fuori da quel principio guida riassumibile nella frase di Sartre che Basaglia sempre ripeteva e che anch’io ho già ripreso in precedenti pubblicazioni: “le ideologie sono libertà mentre si fanno, oppressione quando si sono fatte”. Aver negato la contraddizione che, pur in una situazione avanzata, il ruolo di potere dello psichiatra dentro l’istituzione porta con sé, ha determinato l’attuale situazione d’involuzione, che invera quanto lo stesso Basaglia temeva quando, a proposito della lettera di Frantz Fanon (1971) al ministro residente, dichiarava la necessità di tenere sempre aperta la contraddizione, onde evitare che “la nostra istituzione – diventata per la nostra stessa azione un’istituzione della violenza sottile e mascherata – non continui a essere solo funzionale al sistema”.
Quel che mi interessa qui sottolineare è che il “non poter contare” delle persone con sofferenza psichica rende la loro condizione di vita sovrapponibile a quella di quanti, uomini e donne, vivono nelle nostre società avanzate governate da sistemi democratici. E qui si pone la questione del rapporto tra manicomio e democrazia, rapporto che, per anni, in molti e molte abbiamo praticato sostenendolo come contraddittorio, come se l’uno, il manicomio, negasse l’essenza stessa dell’altra, la democrazia. Tuttavia, forse, questa contrapposizione è solo fittizia, un filo sotterraneo lega manicomio e democrazia: la democrazia ha bisogno del manicomio, anche se, certamente, non è vero il contrario, e ciò, al di là delle riflessioni che seguono e dei dubbi che propongo, rende comunque giusta e corretta la sua negazione. Come psichiatra impegnata sin dall’inizio nella pratica della deistituzionalizzazione, ho sempre pensato che la mia fosse una pratica di allargamento dei confini della democrazia […]. Lettura questa che, alla luce di quanto è accaduto in questi ultimi anni, appare, forse, un po’ troppo trionfalistica: se, infatti, l’obiettivo che ci si era proposti, la chiusura del manicomio, è stato raggiunto, sorge però il dubbio che ciò sia stato possibile perché il concetto stesso di democrazia sia in una crisi profonda, e, di fatto, nei paesi dove pure è nata vengono continuamente a restringersi spazi di democrazia e gli stessi diritti dei cittadini e delle cittadine. Una legge ha sancito la fine del manicomio e il diritto alla parola della persona con sofferenza psichica è ormai riconosciuto, contemporaneamente, però, anche la democrazia mostra oggi i suoi limiti, in quanto non è più in grado di svolgere il suo mandato di governo se non restringendo gli spazi di libertà e di partecipazione del popolo. Nasce quindi una domanda che sento la necessità di condividere perché tocca le questioni dell’oggi, rispetto alle quali è necessario ancora costruire risposte collettive frutto dell’incontro di punti di vista diversi per competenze, pratiche ed età. Ecco dunque la questione: davvero esiste opposizione tra manicomio e democrazia? Il manicomio non si era costituito come necessario in quanto luogo di reclusione delle persone che alla democrazia non potevano partecipare in quanto definiti, per decisione scientifica, incapaci? E infine: non è stato proprio il manicomio che, attraverso questa sua funzione, ha permesso alla democrazia di crescere e stabilizzarsi?
Norberto Bobbio, a proposito della democrazia come forma di governo, evidenzia che “nella teoria classica […] la democrazia è governo di popolo nel suo complesso, di tutti i cittadini, ovvero di tutti coloro che godono dei diritti di cittadinanza”. Quell’ovvero fa la differenza: le persone con sofferenza psichica, fino al 1978, anno di promulgazione della legge 180, non godevano dello statuto di cittadinanza perché definiti giuridicamente incapaci. E allora, forse, esiste un legame e una continuità tra democrazia e manicomio, laddove nel manicomio venivano rinchiuse le persone che la democrazia escludeva in quanto non cittadine.
Il manicomio può essere chiuso perché oggi non serve più, non serve una diagnosi medica, sempre incerta e discutibile, per sancire lo statuto di non persona, si utilizzano altre strategie e motivazioni, in parte recuperandole dal passato, come il colore della pelle, la provenienza geografica, la religione, costruendo nuovi luoghi dove rinchiudere e contenere (CIE, CARA, campi profughi e così via). O ancora si ripropone il manicomio in altri spazi (residenze per anziani, reparti psichiatrici ospedalieri, comunità chiuse) che, con altro nome, ne reiterano prassi e logiche.
Oggi, la contraddizione si è spostata. Allora è necessario tornare sul campo aperto all’inizio di queste riflessioni: la scomparsa dei corpi dalla scena, il loro non valore, rappresentano il terreno sul quale dobbiamo confrontarci se vogliamo ricostruire una società fondata sulla reciprocità e sul rispetto dell’altro, altra da sé […]. È il linguaggio del corpo che, mescolando dire e fare, ragione e sentimento, permette alle persone di condividere conoscenza e sapere, di creare legami e costruire ponti tra paesi geograficamente lontani e politicamente ostili. Quindi, il linguaggio del corpo può e deve rappresentare il punto dal quale partire per trovare nuove forme di convivenza civile, di governo delle comunità, che consentano a tutti e tutte di essere cittadini e cittadine, indipendentemente dalla condizione psichica o fisica, dalla provenienza geografica, dalla cultura e dal credo religioso. (assunta signorelli)