Qualche mese fa si è concluso, con la sentenza di primo grado, il processo ad alcuni componenti del movimento dei disoccupati Bros, accusati di vari reati che risalgono a un ciclo di lotte del passato. Nonostante l’assoluzione per alcuni dei reati contestati, condanne tra i due anni e mezzo e i dodici mesi sono arrivate per numerosi esponenti del movimento, mentre per altri è previsto il risarcimento per presunti danni provocati durante le mobilitazioni e per le spese legali.
Le condanne pesano come una spada di Damocle su attivisti che hanno lottato per anni per superare una condizione lavorativa precaria e garantirsi un lavoro stabile. Ancora più grave è il mancato rigetto da parte del giudice dell’imputazione di associazione a delinquere, che non ha pesato sulle condanne solo perché nel frattempo erano stati superati i termini della prescrizione.
In attesa di leggere le motivazioni della sentenza, è impossibile non rilevarne la matrice politica, che mira alla criminalizzazione delle lotte sociali e che si vendica, dopo più di un decennio, di chi aveva costruito un combattivo movimento mobilitando centinaia di napoletani in un percorso di lotta per un lavoro stabile e sicuro. In seguito alla pubblicazione del dispositivo del processo contro il movimento dei disoccupati Bros, sono state diverse le espressioni di solidarietà, in particolare da parte di chi continua a lottare per un lavoro dignitoso.
Quella che segue è una riflessione sul quadro nel quale s’inseriscono le vertenze dei disoccupati organizzati, e sulla posta in gioco di chi ancora oggi organizza i senza lavoro.
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In certi contesti li definiscono “sacche di precariato assistito”. In altri “proletariato precario”. Ex percettori del reddito di cittadinanza; giovani scoraggiati che non studiano, non lavorano e non sono in formazione; uomini o donne in condizioni di svantaggio o di fragilità; lavoratori e lavoratrici autonome che cessano l’attività. La loro identità sociale non coincide per forza con quella del povero. Forse gli ultras del Milan si rivolgevano a loro quando durante la partita col Napoli hanno esposto lo striscione con su scritto: “Inps che vi affrontano non ce ne sono più”.
Questione di stigma. Qualche volta avranno risposto agli annunci appesi dai commercianti fuori ai negozi (“Cercasi ragazzo”, “Cercasi ragazza”); avranno svolto lavoretti di merda, a nero, irregolari, sottopagati, avranno portato avanti piccole attività imprenditoriali o artigianali, maturato poche ma frustranti esperienze di lavoro salariato; avranno qualche “precedente”; alcuni di loro avranno preso in mano il proprio destino organizzandosi insieme ai propri simili nei movimenti di lotta per il lavoro, che a Napoli da cinquant’anni rappresentano una spina nel fianco delle istituzioni, al di là dei mutamenti di scenario avvenuti in tutto questo tempo.
Le loro scarse competenze non sono la causa della loro condizione di disoccupazione, ma è l’esatto contrario. È la disoccupazione a renderli meno qualificati. Il loro curriculum, per il mercato delle braccia nel nostro paese, risulta scarno, ma è proprio la natura di quel mercato che li svalorizza, scongiurando la ricerca della vocazione ancor prima della ricerca di un lavoro. Tutti presupposti necessari a quel senso di svilimento generale che fa gioco a chi sa come metterlo a profitto.
La pandemia ha picchiato forte sulle condizioni esistenziali di questa fascia di popolazione. Lo dimostrano i fatti. In Campania la riduzione dell’occupazione ha riguardato in particolare i giovani e le donne producendo effetti di scoramento diffuso. Basta guardarsi intorno per cogliere il danno sociale ed economico prodotto dall’emergenza sanitaria, ma anche i dati parlano chiaro: rispetto al 2019 sono aumentati di oltre un quarto i nuclei familiari che hanno beneficiato del reddito di cittadinanza. A essere coinvolta in queste misure è stata una famiglia su sette, con valori superiori in Campania rispetto alle medie nazionali e del Mezzogiorno.
Se agli occhi dei datori di lavoro è vantaggioso addomesticarli scoraggiandoli, agli occhi delle istituzioni è necessario contenerli. Bisogna isolare e stigmatizzare i disoccupati non solo dal resto della società, ma anche tra loro. A tal riguardo esiste un Piano dettagliato e delle risorse talmente ingenti che gli addetti ai lavori parlano di una vera e propria riforma, con obiettivi da perseguire nel corso dei prossimi anni. Il quadro storico nel quale si sviluppa questo Piano è quello del collasso del sistema, in cui vengono collaudate e messe a punto innovazioni tecnologiche all’avanguardia. È il tempo della transizione digitale e della crisi economica, dell’isolamento, dello smart working e del disagio psichico. Il Piano nasce nel contesto del blocco dei licenziamenti, con l’accelerazione di dinamiche preesistenti e con la paura degli effetti della pandemia sugli sviluppi occupazionali. Le risorse assegnate dal Piano alla Campania sono pari a circa centoventi milioni di euro.
QUATTRO STRADE
Chi sono i beneficiari di questo Piano? Sono sempre loro, solo che stavolta sono presi in carico uno per uno e vengono chiamati utenti. Stando ai dati ufficiali, in tutta la regione circa 255 mila unità finora sono state profilate dal Piano. Il meccanismo è all’apparenza semplice. Nel momento in cui l’utente dichiara lo stato di disoccupazione al Centro per l’impiego, il Piano raccoglie i suoi dati elaborando informazioni dettagliate sui bisogni. La procedura è automatizzata e innovativa. Gli standard sono internazionali. Lo scopo è la personalizzazione degli interventi. C’è un algoritmo che stima la probabilità che ha l’utente di trovare occupazione entro una certa data. Dopo aver acquisito le informazioni, l’algoritmo le processa per misurare la distanza dell’utente dal mercato del lavoro, per poi smistarlo in uno dei quattro percorsi previsti dal Piano.
Nel primo percorso, l’utente profilato risulta vicino al mercato del lavoro, l’algoritmo stabilisce che ha un rischio relativamente basso di restare disoccupato. In questo caso, nella migliore delle ipotesi l’utente viene accompagnato a riscrivere il proprio curriculum.
Nel secondo percorso, l’utente si ritrova nel campo dell’indeterminatezza. Nel terzo percorso il rischio è alto: siamo in una situazione di debolezza, la probabilità è una disoccupazione di lunga durata. Il quadro va approfondito. Dall’orientamento di base si passa all’orientamento specialistico. Per alcuni sarà necessario un percorso di aggiornamento, per altri uno di riqualificazione strutturato. Qui entrano in campo gli enti di formazione professionale accreditati dalla Regione. Per loro questo è l’affare del secolo, la disoccupazione una gallina dalle uova d’oro, non è un caso se in Campania se ne contano circa seicento: la platea di riferimento è numerosa. Gli enti di formazione dovranno spartirsi tutti quei milioni previsti dal Piano.
Infine, il quarto percorso. Gli ultimi degli ultimi. Per coloro che risultano ancora più distanti dal mercato del lavoro, il Piano prevede un progetto personalizzato che attiva una rete di servizi territoriali a seconda del caso: una persona con disabilità, una madre single, un giovane uscito prima del tempo dalla scuola, un lavoratore o lavoratrice senza licenza media o elementare, un ex detenuto. Le circostanze possono variare, purché vengano considerate a livello individuale. Singolarmente. Detto in altre parole: purché quei 255 mila utenti non vadano a riempire le liste dei movimenti di lotta per il lavoro, organizzandosi come soggetto collettivo. La spina nel fianco che attraversa il tempo e la repressione.
PER SÉ E PER GLI ALTRI
La governance della disoccupazione all’indomani dell’emergenza sanitaria riproduce gli stessi rapporti di sottomissione indispensabili per un mercato del lavoro inerte, con due differenze sostanziali: la prima è che a supporto di queste pratiche oggi ci sono gli strumenti digitali; la seconda è che si mira ancora di più alla personalizzazione degli interventi; l’utente è solo davanti alla burocrazia algoritmica che amministra il suo caso specifico come se fosse unico al mondo.
Fino a poco tempo fa gli utenti erano aggregati in target da sottoporre a trattamento. Rientravano in una delle categorie socio-economiche individuate dall’ennesima legge di bilancio. Oggi lo scenario è cambiato. Dai gruppi da inserire in specifici programmi si è passati all’analisi dei bisogni di ciascun caso sulla base di un monitoraggio capillare. Ieri erano individui raggruppati, oggi sono individui frantumati nell’intimo.
Cosa accadrebbe se tra quei 255 mila individui censiti e smistati come pacchi alcuni uscissero dall’isolamento per andare a rimpolpare una lista di lotta? Le vertenze dei disoccupati organizzati s’inseriscono in questo quadro di cambiamenti radicali. Da questa prospettiva, la posta in gioco di chi prova a organizzare i senza lavoro è molto più alta di quanto possa apparire.
I governi sono alla continua ricerca di soluzioni tecniche alle tensioni sociali che potrebbero innescare percorsi collettivi di emancipazione contrapposti ai processi d’individualizzazione. La forza delle lotte per il lavoro allora non risiede solo nella concreta possibilità di vincere una vertenza che dura da anni, ma nella sua potenziale capacità di connettere piani diversi, di inserire la vertenza per il lavoro all’interno di un conflitto più articolato, di costruire un alfabeto politico e farne patrimonio a disposizione di chi oggi non ha lavoro, domani lo avrà e dopodomani continuerà a lottare sul posto di lavoro. “Noi non siamo solo un gruppo di disoccupati che chiedono di lavorare”, diceva uno dei leader del movimento nel corso di un’assemblea all’università. Un burocrate, invece, durante una conversazione, sosteneva che “la politicizzazione non favorisce l’ingresso nel mercato del lavoro”.
Una platea storica di disoccupati conduce da anni una lotta per il rifiuto delle pratiche clientelari, del lavoro precario e della ricerca solitaria del posto di lavoro, ma ce ne sono tanti altri isolati tra loro, e se i primi si mobilitano per sé e per gli altri, assumendo sfumature eversive agli occhi delle istituzioni e della polizia, subendo denunce, stigmatizzazioni e condanne, gli altri faranno sempre comodo finché sapranno stare al loro posto, al margine, in silenzio. (andrea bottalico)
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