Molti anni prima di Berlusconi, Achille Lauro sfrutta le incertezze del quadro politico nazionale per entrare in politica e costruire un proprio partito personale. L’ascesa di Lauro prende l’abbrivio da Napoli, favorita non solo dal successo monarchico nel referendum del ‘46, ma soprattutto dalla volontà della Democrazia Cristiana di trovare nel Mezzogiorno un valido alleato per consolidare la svolta conservatrice che a livello nazionale emarginerà la sinistra.
Lauro comprende che può affermarsi, oltre che interpretando in senso populistico e apparentemente antigovernativo il disagio di una popolazione stremata dalla guerra, anche attraverso il capillare controllo del sistema informativo, culturale e artistico della città. Col tempo la pervasività di un tale potere riesce a mutarsi in vera e propria egemonia culturale; un progetto ambizioso che, pur essendo uno dei tratti cruciali del laurismo, non sempre ha ricevuto un’adeguata attenzione anche da parte di attenti studiosi di quella fase storico-politica. Di quanto questo elemento del laurismo rappresenti un nodo essenziale per comprendere anche quelle forme populistiche che si sono succedute in Italia fino ai nostri giorni, lo spiega un bel libro, Il padrone del vapore. Teatro a Napoli ai tempi di Lauro (Liguori, Napoli, 2016), di Annamaria Sapienza, che per la prima volta analizza il rapporto tra Lauro e il teatro a Napoli; mostrando come il Comandante considerasse fondamentale per il consolidamento del suo potere il controllo sistematico di quelle espressioni creative come il teatro o il cinema, che avrebbero potuto offrire una narrazione diversa della città svelando i meccanismi ambigui e clientelari su cui si reggeva il suo dominio.
Nella stagione laurina – che termina nel ’58 con l’emanazione del decreto di scioglimento della giunta comunale – occorre offrire un’immagine assolutamente positiva della città. Chi si azzarda a mettere in discussione la follia piedigrottesca del Comandante, viene, senza troppi complimenti, attaccato ed emarginato. I “gufi” di quel tempo sono i vari Malaparte, Eduardo, Rosi, regista de La sfida e Le mani sulla città; il regista Damiano Damiani, autore di Voci di Napoli, un documentario che “Lauro riesce a far ritirare dalla distribuzione, grazie all’intervento del ministro Fanfani, poiché lesivo dell’immagine della città”.
Il controllo del sistema teatrale non è meno asfissiante. Nulla è lasciato al caso. Il San Carlo è il suo primo territorio di conquista. Lauro ne fa la sua più importante vetrina mediatico-istituzionale, utilizzando gli ingenti contributi messi a disposizione dal governo e insediando nella direzione del Massimo alcuni uomini di sua fiducia. Più complicato è invece gestire, nel 1955, la Compagnia Stabile del Teatro di Prosa con sede al Mercadante (il settecentesco teatro che egli intende abbattere per modernizzare l’area antistante il porto) e, successivamente, l’Ente Teatro Stabile da lui stesso promosso e presieduto, che denunciano palesemente “l’assenza di un progetto culturale e teatrale adeguato alle necessità della situazione cittadina”. Negli stessi anni, il rilancio della Piedigrotta è una ulteriore, efficace manifestazione del suo populismo, tesa a recuperare “lo spettacolo di massa, tanto di matrice profana quanto di derivazione religiosa”. Nei primi anni Cinquanta, alla sua irrefrenabile attività propagandistica fanno quasi da contraltare una miriade di compagnie e di famiglie di attori che, al di fuori dei circuiti ufficiali, riescono a riattivare in generi minori – come la rivista e l’avanspettacolo – la nostra migliore tradizione attoriale. Da tale prospettiva, si può senz’altro affermare che la sceneggiata, in quegli anni, è la più viva e autentica creazione del sottoproletariato napoletano: un evento “capace di realizzarsi in un corto circuito all’interno del rapporto tra autore, attore, cantante, pubblico”.
Dove il sistema Lauro comincia a scricchiolare è nel rapporto con alcuni grandi attori nel nostro teatro; soprattutto con Nino Taranto ed Eduardo, che all’inizio degli anni Cinquanta apre con grandi sacrifici il San Ferdinando per farne un moderno centro di recupero della tradizione aperto anche ad altre esperienze artistiche interdisciplinari.
Dello scontro con Nino Taranto, Sapienza ricostruisce con preziosi riferimenti la storia, quasi sconosciuta, della censura di Lauro alla rivista Sciò Sciò, dove l’attore napoletano “ironizzava su un intercalare cittadino creatosi intorno alla repentina onnipresenza del sindaco”. L’episodio suscita sdegno nel mondo politico di sinistra, che col deputato del Pci Vincenzo La Rocca denuncia al capo del governo l’amministrazione comunale e Lauro per abuso di potere.
La parte più rilevante dell’investigazione dell’autrice, riguarda sia il rapporto tra il Comandante ed Eduardo, sia lo sguardo sul “pensiero divergente” di scrittori e intellettuali come Annamaria Ortese, Luigi Compagnone, Giuseppe Patroni Griffi, Gennaro Pistilli, Raffaele La Capria, lo stesso Peppino De Filippo; l’artista critico Paolo Ricci – grande amico di Eduardo ed esegeta del teatro di Viviani – che trasforma il suo studio a Villa Lucia in un centro culturale dove sono ospiti scrittori, poeti e artisti di fama internazionale come Paul Eluard, Nazim Hikmet, Pablo Neruda (di cui cura la pubblicazione di Los Versos del capitan); questi intellettuali napoletani da posizioni diverse e con differenti sensibilità si oppongono al laurismo squarciando il velo sulle miserabili condizioni della città.
Nell’analisi del rapporto conflittuale tra Lauro ed Eduardo (ma anche con i democristiani poi subentrati nell’amministrazione comunale), emerge con chiarezza la funzione di Eduardo come coscienza critica della città; un ruolo che, a nostro parere, non sempre negli anni Cinquanta e anche oltre gli è stato riconosciuto, non solo dalle forze conservatrici al potere, ma anche da quei movimenti d’avanguardia – a eccezione di grandi artisti attori come Bene, de Berardinis, Neiwiller – che non seppero cogliere nel comportamento attorico di Eduardo la vera innovazione europea della nostra drammaturgia.
Eduardo non solo non accetta alcun compromesso con Lauro, che ostacola il suo progetto di fare del San Ferdinando un moderno centro teatrale, ma secondo Ricci – in un’opera particolarmente esemplare della sua drammaturgia come il Figlio di Pulcinella (1954) – denuncia con poetica libertà gli inganni demagogici del laurismo, mostrando tra l’altro una maschera di Pulcinella lontana da ogni folclore, descritta senza pietà e senza alcun compiacimento.
Il discorso di Sapienza termina con un’analisi meta-teatrale dell’opera di Elvio Porta, L’opera d’‘e muorte ‘e famme (1979), ispirata all’Opera da tre soldi di Brecht, dove ritorna il discorso critico su Lauro e la Napoli del dopoguerra. Sembra quasi la chiusura di un ciclo, ma è solo l’inizio di un’altra storia, di nuove forme di resistenze necessarie per liberarsi ancora una volta da ogni sorta di asservimento al potere. (antonio grieco)