Jenny è pazza. Non conosce la canzone di Vasco ma le sue amiche non hanno dubbi sulle condizioni della sua psiche. «Pensa che una volta ha mandato per sbaglio un sms d’amore a un tipo che le piaceva ma ha sbagliato numero e l’ha mandato al suo fidanzato. Allora lui era tutto contento perchè si pensava che era dedicato proprio a lui! Hai capito!?». Mentre Titti racconta le incredibili avventure di Jenny, Biagio Antonacci è una persecuzione dagli altoparlanti al soffitto. Quarto Nuovo è l’ipermercato che della città flegrea dovrebbe essere la versione 3.0. Prima la città agricola, poi quella della speculazione edilizia con tanto di parchi e villette a schiera. Oggi la città dei consumatori. Le fasi delle città segnate dalle periodiche fluttuazioni del denaro.
Il sabato mattina è un brulicare di automobili in entrambi i sensi della sopraelevata che si slancia verso il mare. Una via di fuga e decollo, verso la Domitiana bella e disperata. Titti ha mutato il suo nome tradizionale in un nickname altrettanto classico, mentre la sua amica, quella che ride sempre, ha optato per un indecifrabile Liana. Un esotico nonsense con cui vincere la banalità opprimente delle origini. Non si è mai vista una tronista che si chiami Concetta. Nella folla che viene al tempio c’è di tutto. Quelli che i soldi ce li hanno davvero e quelli che fingono, in ossequio a un mondo come rappresentazione senza volontà. È giornata di filoni, ed è pieno di ragazzi. Trascorrono il tempo rubato alla scuola in un ipermercato e in fondo non si può parlare di vero e proprio filone. Passano semplicemente da un luogo di formazione a un altro. Meno noioso, più diretto e concreto.
La scuola ha perso contro un circuito culturale forte e ricco che crea bisogni, li diffonde e li rende possibili. La tuta di ciniglia che fa molto Simona Ventura, il gilet strizzato su addomi e toraci non sempre adeguati. Gli oggetti imprescindibili che ti permettono di appartenere a una comunità. Quella dei consumatori. Niente più partiti, niente sindacati o associazioni. Il popolo è scoppiato in mano a tutti quelli che volevano addomesticarlo e nel deserto del presente si identifica in icone semplici ed eloquenti. La senghetella. È un infinito via vai di pantaloni vita bassa, l’ingresso dell’ipermercato, jeans strizzati a contenere fianchi impossibili, glutei ipertrofici. Girovita lardacei fanno bella mostra di sé fra questi pantaloni a mezza natica e le magliettine succinte che lasciano scoperte le maniglie dell’amore e mostrano in basso, come un simbolo tribale, l’apice della linea che separa i glutei. La senghetella.
La fessurina che marchia a fuoco una generazione indecifrabile. «Vabbè certe cose sono un po’ scomode è vero però si devono portare. Un piccolo sacrificio perché comunque la moda è importante, bisogna seguirla se no che fai vivi in un mondo a parte?». In realtà quello che è interessante, di uno stile, è la sua provenienza. Per intuizione o induzione? In questi tempi di frullato culturale più che esprimere simboli si adottano icone, fredde perché studiate a tavolino e che più che connotare una generazione la rendono riconducibile a un modello che di questi tempi produce ciuffi phonati e un abbigliamento che trasuda quell’affettazione condannata già nel Cortegiano del Castiglione, un tentativo di rendersi graziosi di cui non si riesce a celare lo sforzo. E che sa di posticcio. È una generazione che non ha stile e adora il feticcio che ha sconfitto tutte le altre ideologie, la Moda. Quella Moda che nelle Operette morali scopriamo sorella della Morte. “Dico che la nostra natura e usanza comune è di rinnovare continuamente il mondo”.
Nel 1953, qualche anno prima dello storico saggio di Vance Packard, F. Pohl e C. Kornbluth pubblicavano I mercanti dello spazio, in cui raccontano l’incubo della pubblicità divenuta scienza fondamentale della società. Uno scenario all’epoca incredibile e spaventoso, che si concretizza un sabato mattina di Quarto, mentre il popolo che tutti cercano, per imbonirlo o salvarlo, si gode l’aria condizionata straziato da Antonacci, e condivide al di là del conto in banca movenze, acconciature, nevrosi. Un’amalgama di Vuitton e Dolcegabbana in cui pare quasi che la divisione in classi sia roba superata. La navata centrale di questa cattedrale del consumo restituisce l’immagine collettiva che ha sostituito nozioni vecchie come popolo o massa. La folla, dentro cui settori sempre più estesi della massa operaia italiana quando non guardano a Berlusconi e al suo mito posticcio si rifugiano nell’egoismo torvo della Lega. Perchè, diciamolo, non esiste alcuna coscienza di classe insita nell’essere sottomessi. Basta guardare almeno una volta Brutti, sporchi e cattivi per far piazza pulita di ogni idiozia sulla bontà originaria delle classi subalterne corrotta dal capitalismo. È importante, se consideriamo che ciclicamente si avvicendano teorie ingenue che guardano agli sfruttati come a depositari di una missione.
Uno sguardo stolido che pretende di aver risolto i problemi individuando un soggetto portatore di verità. Gli operai della catena di montaggio, i sottoproletari delle borgate romane, oggi i migranti in fuga dalla fame. Intanto folle di umani su cui è stata fatta un’operazione decennale di indottrinamento se ne fottono di Marx ingozzandosi di pizzette e coca cola. Come a una messa si riversano in questi moderni luoghi di cultura coi jeans tre taglie in meno, le creste tenute su con la lacca, gli iphone e la colata di gel. Dev’essere la invincibile malinconia da overdose antonaccica ma davanti di questa folla quello che atterrisce è l’assoluta mancanza di prospettiva. Ricchi e poveri, studenti non studianti e casalinghe SUV munite, giovani tronisti e mature matrone. Figure bidimensionali che riempiono il loro spazio presente provando a brillare il più possibile ma che non hanno profondità. Come i dipinti di epoca egizia.
È un disastro di fronte al quale, quando si piega la volontà, non resta che sperare. Magari un po’ di musica decente verrà fuori anche dalla radio, invece di questo piagnisteo. Magari qualcosa di buono uscirà, un giorno, proprio da queste pettinature posticce e da questi lombi nudi. Un’idea sola, fosse pure labile e sottile, uscita come per miracolo, un soffio, da una di queste senghetelle. (antonio bove)
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