Dal n. 55 di Napoli Monitor
La Domitiana è lunga e bollente. Mentre guido il sole batte insistentemente e inevitabilmente sul mio braccio sinistro. Per fortuna non troviamo la carovana insormontabile di bagnanti perchè, con un colpo di genio, decidiamo di andare a Mondragone un qualsiasi mercoledì di luglio. Scopo del viaggio: la ricerca di rom bulgari di cui si sa poco, ma quanto basta per alimentare leggende metropolitane. Lo studio, indipendente, riguarda alcuni casi di rom che vivono nella provincia di Napoli e Caserta, i diversi percorsi e motivi migratori, le attività svolte, il legame con quel territorio piuttosto che un altro.
Da un cartello posto all’ingresso della città, io e la mia compagna ungherese apprendiamo con stupore forse ingenuo che Mondragone è gemellata con Lipòtvàros, quinto distretto della città di Budapest. La campagna desolata, l’odore poco convincente, quegli strani mucchi di case, alcune delle quali abbandonate, i bar ai due lati della strada, i giovani in bicicletta e qualche donna sulla strada, lo scintillante isolato arancione del mozzarellificio Mandara che svetta – mi dico che stiamo entrando in terra straniera e sconosciuta.
Con questo spirito, manco fossimo esploratrici, senza alcuna indicazione e nessun contatto, non ci poniamo troppo il problema di come trovare quanto cerchiamo e che tipo di accoglienza riceveremo. In effetti, a una pompa di benzina al confine con i paesi limitrofi, un quasi bambino paffuto benzinaio a cui chiediamo notizie anche approssimative su dove si trovino gli stranieri, i bulgari, i rom, capisce subito, non si meraviglia e ci indirizza verso i palazzi della Cirio, al centro di Mondragone.
Prima di arrivare, incerte sulla strada, ci fermiamo in un bar per ristorarci e chiedere ulteriori informazioni, si fosse sbagliato il bambinone. Visibilmente “straniere”, la signora dietro il bancone si limita a un freddo servizio, salvo poi mostrarsi letteralmente scandalizzata e seriamente preoccupata quando le chiediamo se per caso sa dove vivono i bulgari. «Ma che dovete fare? Siete sicure? Dovete stare attente, due ragazze da sole… quelli non sono uomini sono bestie, vivono per i fatti loro, ci sono anche donne e bambini, voi che ci andate a fare? L’altra notte è scoppiata una rissa perché avevano bevuto, noi non ci abbiamo niente a che fare, alcuni stanno nei palazzi della Cirio, altri invece vicino al depuratore sul mare, ma lì veramente non ci dovete andare…». Per una frazione di secondo mi lascio suggestionare dagli occhi impauriti della avvenente barista e mi figuro scene da inferno dantesco, salvo poi ritornare in me e insistere per sapere con precisione la strada. Fuori al bar, vicino a un SUV, due panciuti sudati uomini della zona.
Il caldo aumenta, continuare in macchina non si può. Dopo pochissimo, arriviamo in pieno centro e ci accorgiamo che possiamo liberarcene, la strada da fare è finita. I Palazzi della Cirio, impossibile non notarli, si stagliano sproporzionati accanto al corso principale, a poca distanza dal mare, nella zona più brulicante del paese. Attorno, supermercati, posta centrale, negozi di ogni tipo, mondragonesi che si affaccendano. Girato l’angolo, nei parcheggi riservati agli abitanti dei palazzi, macchine targate BG, Bulgaria. Le case non sono tutte abitate, i palazzoni hanno un’aria un po’ spettrale, molti i cartelli di affittasi/vendesi. Incontriamo una famigliola italiana che ritorna dal mare e che alloggia lì, «ma solo per le ferie, questa è la casa di villeggiatura». Una specie di 167 balneare. Naturalmente non conoscono nessuno dei rom, stranieri o bulgari che vivono lì. Poco distante passa un gruppetto di ragazzini che ci lancia un’occhiata furtiva e si avvia verso l’entrata dello stesso palazzo. Per essere stranieri lo sono, ma di dove? L’approccio non è facile, intavolare un discorso ci sembra una conquista. Ritorniamo sui nostri passi, accanto alla posta che avevamo oltrepassato, sul lato principale del rione. Alle pareti, volantini datati che in bulgaro invitano alla messa pasquale. Sotto i portici gruppetti di bambini che giocano seguiti dallo sguardo dei padri seduti sui muretti delle aiuole a chiacchierare con gli amici.
Passiamo per la seconda volta e per la seconda volta destiamo commenti incomprensibili, chiaramente è una zona in cui non si passeggia ma solo di passaggio verso posta e supermercato e in più ci sono solo uomini. Ormai loro ci osservano come se fossero seduti a teatro, allora rompiamo gli indugi e ci avviciniamo alla platea, presentandoci e dicendo che vorremmo conoscere i bulgari che vivono lì di cui abbiamo tanto sentito parlare, per fare una ricerca sul lavoro nella provincia di Napoli e Caserta. Ci rendiamo conto che capiscono pochissimo l’italiano e questo crea una diffidenza amplificata. Alcuni ci dicono “no, no”, la maggior parte non risponde e si gira dall’altra parte, i pochi che non ci ignorano cerchiamo di tranquillizzarli, siamo evidentemente innocue in veste di “studentesse”.
Kola ci prende sotto la sua protezione, manda un ragazzo più giovane a prendere due caffé per noi, continua a scusarsi perché non parla bene l’italiano. Ma riusciamo a capirci. Ci chiarisce la provenienza del gruppo: bulgari da Nova Zagora, assolutamente non rom, ribadito con una risatina e «parliamo turco, perché cinquecento anni fa c’era la dominazione turca ed è rimasta la lingua. Anche se per tanto tempo è stata proibita dai bulgari, comunque si parlava in casa, in famiglia, di nascosto, e così l’abbiamo conservata». Alcuni sono musulmani, per questo sono fermi al sole nei giardinetti, siamo in periodo di ramadan, e comunque il lavoro è poco, come sottolinea qualcun altro dopo. Kola sembra contento di aver trovato due distrazioni per la mattinata, ci porta in giro, ci dice poco di sé, perché «io non parlo bene», o forse pensa di non avere una storia abbastanza interessante da raccontare. Insiste molto invece per farci incontrare il suo amico Ivan, lui parla benissimo, ci dice con gioia, ma adesso è a lavoro. Telefoniamo, parliamo direttamente con Ivan dopo un concitato preambolo di Kola, e prendiamo appuntamento per alcuni giorni dopo nel tardo pomeriggio, alla fine del lavoro, al Bar Domitia. Kola ci spiega che lavorano tutti nei campi e nella raccolta stagionale, nelle campagne vicino Mondragone, pesche, fagiolini – questi soprattutto le donne –, ma che Ivan invece è quello che prende tutti con il furgone la mattina e li porta a lavoro. Un “caporale” dunque, che deve per forza parlare meglio italiano per distinguersi dagli altri. In realtà, l’apprendimento della lingua per Ivan è stato meno lineare del previsto, come poi ci racconterà. Un giorno di dieci anni fa, giovanissimo, mentre raccoglieva melanzane in una serra, alla sua terza stagione di bracciante, giurò a se stesso che non avrebbe fatto mai più questo lavoro. Il caldo, il sudore, le troppe ore, la schiena spezzata, ma soprattutto non capire cosa dicono i capi italiani anche quando urlano e la frustrazione di non poter rispondere. Per rabbia decise di imparare in fretta l’italiano, si comprò un piccolo dizionario bulgaro-italiano e se lo lesse tutto, memorizzando parola per parola. Soddisfatto, dopo un po’ di tempo si sentì sicuro di poter comprendere, rispondere e nel caso mandare a quel paese gli italiani. Ma quando si trovò nella serra, sentì dire al patron parole che non ricordava di aver letto sul suo dizionario… Spavaldo e infastidito gli disse: “Scusa, ma tu non parli italiano!” e quello infuriato aggiunse qualcosa nella sua lingua. Ivan allora capì che per farsi strada e uscire da quella serra non bastava conoscere l’italiano, doveva imparare soprattutto il dialetto locale.
Proseguiamo il giro con Kola e insistiamo con lui sulla faccenda dei rom. Lui di nuovo nega assolutamente di esserlo e un po’ si insospettisce. Perché ci interessano tanto gli zingari? Questa è una domanda che ci faranno tutti e rispondere che lavoriamo con loro, che facciamo parte di un’associazione di Napoli e che siamo “amici” dei rom non basta, anzi crea una certa ambiguità. Comunque lì ne vivono alcuni, vengono dalla Bulgaria e sono lavoratori stagionali, ma nessuno è interessato a farci parlare con loro. Capiamo che ci tengono a mantenere una certa separazione, pur nella palese convivenza e condivisione di percorsi simili.
Ritorniamo ai giardinetti della posta. Kola ci fa accomodare sotto i portici vicino a un locale che fa kebab, ci offre sigarette e fa da spola e mediatore tra noi e quelli seduti, per farci parlare con qualcun altro. Loro lo guardano divertiti e con un’aria maliziosa, noi aspettiamo fiduciose che qualcuno venga a tirarci fuori dall’imbarazzo concedendoci una chiacchierata. Si alza dalla posizione in cui si trova dall’inizio della nostra visita Kemal, il più cupo e taciturno di tutti, che viene lento e annoiato verso di noi. Il suo italiano è ancora più povero di quello di Kola, ma siccome è stato anche in Spagna ce la caviamo con dieci parole in tutto e molti sguardi significativi.
Kemal fa avanti e indietro dalla Bulgaria da circa otto anni, viene qui come molti a lavorare come bracciante a nero nel periodo estivo e poi se ne torna a casa sua dove ha lasciato moglie, figli e, mi sembra, gioia di vivere. Le relazioni con gli italiani sono inesistenti o poco buone, lui ha studiato il Corano ma non gli interessa studiare una lingua che non gli serve per parlare con nessuno. Inoltre, da un po’ di tempo la crisi si fa sentire forte in questo settore, spesso non si lavora e spesso si lavora ma non si riceve la paga perché le vendite sono in calo. E allora stare qui fermi, in attesa, è veramente una inutile perdita di tempo. Ma tornare significa la fame. La Bulgaria, dicono tutti, è un paese corrotto e quindi povero. Osservata con gli occhi di Kemal la zona in cui siamo è divisa dal solito paradossale inossidabile muro invisibile: da una parte gli italiani e dall’altra gli stranieri.
Salutiamo Kola che rivedremo insieme a Ivan al bar Domitia, ringraziamo tutti e ci infiliamo nella Citroen diventata un forno. Ostinate, seguiamo le indicazioni della barista verso il depuratore, la zona off limits un po’ fuori dal centro. Oltrepassiamo un ponticello che finisce a mare e sovrasta un canale di scolo verde bottiglia. Tra i canneti non si vedono case e non c’è nessuno, tranne due persone con una macchina di servizio con la scritta ARPAC, ferme a fare rilevazioni. Mi sembra una visione quasi scontata. Spunta dal nulla un ragazzino bruno in bicicletta, decidiamo di seguirlo, anche se lui sfreccia sulla stradina e noi dobbiamo stare attente a non cadere nel canale. Dopo poco, superato un canneto, il ciclista si infila in un cancello su un viale che costeggia la spiaggia e sparisce. Intravediamo sulla strada ex case di villeggiatura con macchine targate BG, ma non c’è nessuno nel cortile e pensiamo sia meglio non entrare senza invito a ora di pranzo in casa altrui. Di fronte, poche madri e bambini italiani frequentano il lido “White Beach”, ma il colore del mare da lontano non ci ispira un fresco bagno ristoratore.
Prendiamo la via del ritorno. Ci perdiamo per le campagne desolate alla ricerca della Domitiana, che troviamo grazie a un solitario contadino che ci fornisce anche una testimonianza della lingua locale. Prima di ripartire, una sosta nell’ennesimo bar dove un gruppo di giovanotti stranieri (bulgari? turchi? rom?) gioca a biliardino. Ci guardano e indicandoci si chiedono a turno freneticamente: “Spagnol? Germani? Albanese?”. Sulla strada ormai a scorrimento veloce, notiamo un anziano e un bambino che procedono a piedi portando una bicicletta. Entrano in un caseggiato recintato da cancellate e reti messe a protezione. Ci fermiamo come possiamo e vediamo che i caseggiati sono due, con ampi cortili al centro, sembrano ex masserie. Sui vari livelli donne, giovani, bambini, una grande griglia su cui si cucina. Forse qui abitano i rom, anche se ci sembra che non abbia più senso chiederselo. (emma ferulano)