Questa intervista è la versione integrale di un articolo pubblicato dal Corriere del Mezzogiorno il 2 maggio scorso.
“Mi chiamo Karim Amir e sono un vero inglese. Più o meno”. È così che comincia il libro più famoso di Hanif Kureishi, uno dei più noti scrittori del suo paese, drammaturgo, sceneggiatore, regista e, appunto, vero inglese. Più o meno. Di padre pakistano e di madre britannica, Kureishi è nato a Londra, ma tutta la sua produzione è legata ai temi del postcolonialismo, dell’identità (o meglio dell’identificazione e dell’adattamento dei cittadini di origine straniera all’immagine predominante del paese), del rapporto tra origini e integrazione. Kureishi è a Napoli per partecipare a un incontro organizzato dal Forum delle Culture sui temi delle migrazioni, dei diritti e delle evoluzioni delle culture migranti.
Arrivo bagnato nella hall dell’albergo sul lungomare, per colpa di una pioggia sottile ma fastidiosa, tipo Birmingham nel mese di marzo. Aspetto qualche minuto Kureishi, in una delle poltroncine eleganti in stoffa blu, di fronte a un quadro con la villa Comunale di metà Ottocento. Dall’altro lato il cielo è grigio e il mare agitato. Lo scrittore ha in mano una tazza di caffè lunghissimo, indossa una felpa e sotto una maglia con la faccia enorme di Frank Zappa. Odia anche lui gli ombrelli, dice.
Sei nato a Bromley, periferia sud di Londra, in una famiglia di piccola borghesia. Tuo nonno era un colonnello dell’esercito indiano e tuo padre sognava di fare lo scrittore ma lavorava all’ambasciata e aveva sposato una donna inglese. Com’era la vita per una famiglia così negli anni Cinquanta?
Mio padre arrivò in Inghilterra dall’India, come tanti figli della classe media indiana, per studiare legge. Quando sei bambino, fino ai cinque o sei anni, sei a casa con tua madre, poi improvvisamente ti rendi conto di essere differente. Più o meno succede quando vai a scuola e cominci a identificare la tua posizione nella società. Impari abbastanza in fretta: la lingua degli altri ragazzi e dei professori è un po’ diversa dalla tua, sei catapultato nella politica. Ti insegnano di te: dell’impero, del colonialismo, del mito della Gran Bretagna. Un linguaggio di razza che ti può anche assorbire, perché attorno a te vedi che il “bianco” è la norma. Io poi venivo da una famiglia in cui una donna inglese ha sposato un pachistano…
Hai fatto degli studi tecnici, poi all’improvviso ti sei messo a studiare filosofia e poi, sempre all’improvviso, a scrivere racconti erotici. Quando è che hai deciso cosa fare della tua vita?
Ho cominciato a scrivere da adolescente e a quattordici o quindici anni ho deciso di voler diventare uno scrittore. Era la metà degli anni Settanta. A quell’epoca molti dei miei amici si interessavano di fotografia, altri facevano musica. Ma il punk cominciava a coinvolgerci tutti, anche perché frequentavamo Vivienne Westwood, Malcom McLaren, e i Sex Pistols, ovviamente. Eravamo tutti molto coinvolti nel movimento. È stato un periodo turbolento ma soprattutto creativo, per una periferia come la nostra e per Londra. Tutto succedeva attorno a King’s Road. Poi qualche anno dopo ho cominciato a scrivere pornografia, intorno ai venti anni. Nel frattempo molti di quegli amici erano diventati piccoli spacciatori, anche prostitute occasionalmente, ognuno cercava di galleggiare a modo suo.
Nei tuoi romanzi si parla spesso della relazione tra padre e figlio, in particolare dal punto di vista delle differenze di integrazione nella società inglese. Praticamente la tua vita…
A dire il vero sono stato fortunato, perché sono stato uno dei primi scrittori che ha potuto parlare di certe cose, dell’immagine della nuova Gran Bretagna, della fine dell’Impero e delle sue conseguenza sociali, a cominciare dall’immigrazione di massa. E avevo davanti la materia prima. Nella mia famiglia, tutti i giorni. Ho solo pensato prima degli altri che queste storie andavano raccontate e l’ho fatto. Fino ad allora c’era un po’ di resistenza nell’affrontarle.
E il rapporto con i tuoi, di figli?
Ottimo, senza dubbio. Ci piace il calcio, e questo facilita le cose.
Tuo padre diceva che nei tuoi libri c’era troppo sesso. Loro che ne pensano?
Ovviamente non parliamo mai di sesso, la cosa li imbarazza. Mi trovano volgare quando lo faccio. Per quanto riguarda i libri… beh non li leggono mai. Mio figlio me l’ha detto proprio ieri: non li leggerò mai i tuoi fottuti libri. Però è anche vero che non leggono libri in generale e quindi la cosa mi tocca di meno.
Il sesso è spesso al centro di quello che scrivi. C’è una immagine forte in uno dei film per cui hai scritto la sceneggiatura, considerando che siamo negli anni Ottanta, di uno skinhead gay che bacia un ragazzo pachistano. È ancora possibile per il cinema produrre una idea originale o semplicemente una immagine del sesso che risulti efficace?
Ho visto ultimamente quel film francese, La vita di Adele. Credo che sia fatto molto bene. Hai l’impressione, durante le scene di sesso, che la cosa piaccia a tutte e due. Beh, vuol dire che l’immagine è efficace. Non è importante mostrare chissà quali scopate per rappresentare il piacere sessuale. Ma è una cosa molto difficile, sia per il cinema che per la letteratura. Io per esempio, quello che provo a fare è parlare del significato implicito che ha quel momento, nelle storie, nelle vite dei personaggi. Altrimenti mostri solo due che vanno a letto. Che va bene ma è un’altra cosa.
Nei tuoi lavori il punto di vista postcoloniale parte sempre dall’identità individuale del personaggio. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensi del rapporto tra individualismo e integrazione, e se credi che in un paese come l’Inghilterra ci sia una integrazione reale nella società da parte delle comunità o piuttosto sia una integrazione di individui.
Non sono del tutto d’accordo con questa prospettiva individuale. Credo che il punto sia il raccontare non l’individuo come differente, ma la società. Partire dal presupposto che la norma non sia il “bianco”, inteso come individuo, inteso come la gente bianca. E da lì capire che la società è differente proprio perché composta da comunità. Dalla gente greca, italiana, turca… musulmani, cattolici, rastafariani, tifosi del Manchester United… Il problema è la norma. La norma lascia fuori molta gente, che comincia a sentirsi essa stessa diversa, e diventa facilmente isterica, nevrotica. Se accetti la norma, qualsiasi norma, questa ti fa vedere con una prospettiva diversa il mondo e ti rende molto più difficile viverci. Se invece parli di integrazione, beh, succede che quando non sei più capace di isolare i tuoi problemi cominci a far si che il problema sia la parte stessa della soluzione.
Nella tua vita sei sempre stato impegnato politicamente. Ero a Londra durante il funerale della Tatcher, e mi ha colpito molto il fatto che la popolazione inglese, immigrati compresi, sia ancora molto divisa tra chi la considera una delle “madri della patria” e quelli che i giornali chiamano gli haters (“odiatori”). È ancora troppo presto per una analisi equilibrata di quegli anni?
La Tatcher ha lavorato sodo per più di dieci anni, per distruggere la working class inglese, per indebolire i sindacati che avevano fino a quel momento grande importanza. Per smantellare lo stato sociale, il National Healt Service… altro che visione patriottica! Grazie a lei l’Inghilterra ha perso pezzi importanti della propria identità. La Tatcher non era dalla parte dell’Inghilterra, era dalla parte dei ricchi. Lei amava i ricchi e quel capitalismo estremo che ha avuto un effetto deleterio sul paese. È comprensibile che qualcuno la ami e qualcuno la odi. In fondo ha fatto una rivoluzione. Una rivoluzione di estrema destra.
La critica spesso etichetta i tuoi personaggi con l’espressione loosers (“perdenti”). È davvero così?
No, infatti non amo questa espressione. Credo sia abbastanza rozza e anche fuorviante come definizione. Sono semplicemente personaggi che mi interessano, che funzionano e sono buoni in una storia. Tutto quello che è importante è che siano capaci di farmi dire cose, che si mostrino realmente per come si muovono nella società. Personaggi con cui posso fare cose, nel mio ruolo di scrittore.
Hanno qualcosa in comune con te?
Sì, direi di sì. Ognuno di loro parla di una parte di me.
Viviamo in un mondo che ha predicato per decenni la globalizzazione e l’abbattimento delle frontiere per le merci. Eppure ha una paura estrema dell’abbattimento dei confini per le persone, in un’epoca in cui per spostarsi da un continente all’altro bastano due ore. I movimenti sociali all’inizio del nuovo millennio hanno provato a combattere questa politica e ad aprire un dibattito. Credi che la possibilità di un mondo in cui gli individui possano spostarsi liberamente da un posto all’altro sia solo un’utopia?
In tutto il mondo i governi hanno una vera e propria paranoia per l’immigrazione. Non c’è grossa differenza tra paesi. Allo stesso tempo, però, i paesi dove il capitalismo è più consolidato non possono fare a meno dei lavoratori stranieri. Dagli Stati Uniti a Londra. Perché se vuoi una economia solida e un capitalismo di successo hai bisogno di lavoro a basso costo. Ma hai bisogno anche che questo lavoro non viva una emancipazione e quindi hai bisogno che la popolazione abbia un sentimento negativo nei confronti di questi lavoratori. In sostanza ti servono ma la gente deve odiarli. Poi se un paese vuole usare gli immigrati come spettro faccia pure, può andare avanti per sempre. Ma alla fine se finisci in ospedale e hai bisogno di un dottore tu vuoi il migliore che c’è, e non ti importa se è giapponese o italiano. Piuttosto il problema è che il migliore devi andare a trovartelo in Florida e pagarlo caro.
Nel nostro paese c’è un milione di ragazzi, figli di migranti, che non può avere la cittadinanza italiana. Figli di migranti ma nati in Italia. Che qui hanno studiato e qui cercheranno un lavoro. Sarebbe possibile una cosa del genere in Inghilterra?
In effetti credo di no. E immagino che chiunque sarebbe abbastanza infastidito dall’essere nato e dal vivere in un paese ma non essere riconosciuto come cittadino. È qualcosa di più simile alla schiavitù che al diritto. È difficile credere che sia possibile, in un paese come l’Italia che è sempre stata una terra di immigrazione e di certe storie dovrebbe avere memoria. In Pakistan non è troppo diverso: se vuoi diventare un ingegnere, un dottore, un avvocato, devi andare via. Canada, Australia o Stati Uniti.
Nella nostra città gli scrittori o i registi devono spesso confrontarsi con un’immagine stereotipata del posto in cui lavorano. Talvolta questo diventa una vera ossessione. Quando scrivi di migranti o crei personaggi che sono cittadini inglesi di seconda o terza generazione, senti un rischio del genere?
No, ma in verità è perché cerco di non pensare a questo. Quando scrivo è perché ho bisogno di scrivere. E quindi scrivo e basta. Anzi sento la necessità di non rimanere troppo coinvolto, non pensare, mentre dai vita a un personaggio, se stai raccontando gente buona, gente cattiva. È semplicemente gente che ho bisogno di raccontare.
Sei un noto tifoso del Manchester United. Che ne pensi del fatto che una delle più importanti squadre inglesi abbia un proprietario straniero, anzi americano?
Dipende. Sono arrivati in un momento storico in cui è necessario investire molto. Se lo fanno mi piaceranno (ride, ndr), altrimenti valuteremo. Ma li avviso subito che c’è da comprare molti nuovi giocatori, perché siamo alla fine di un ciclo. E un nuovo allenatore. Da quando Ferguson è andato via è stato un disastro. Ma stamattina leggevo che prenderemo Van Gaal, mi sembra l’idea migliore. Mi piace molto.
Non dirmi che sei uno di quelli che ancora crede alle bandiere nel calcio?
Mi piace quando un giocatore lo diventa. E infatti mi ero innamorato di Cantona. L’avevo capito subito, nel ‘92 quando venne a Manchester dal Leeds ero molto eccitato. Poi sono stato innamorato di Ronaldo. Se dovesse vincere la Champions la sentirò un po’ anche mia. Non mi importa quello che dicono alla tv, per me è ancora un giocatore del Manchester.
Cosa pensi del cambiamento del calcio inglese negli ultimi trent’anni?
Mah, è una cosa molto complicata da spiegare. Faccio sempre l’esempio della violenza. Ora tutti possono essere felici perché la violenza negli stadi di calcio non c’è più. Solo che questo non vuol dire che la violenza è stata sconfitta, perché la violenza c’è nella società. Dietro c’è a volte il razzismo, a volte il disagio sociale, ci sono un sacco di cose. Provate ad andare a Newcastle di sabato sera, vedrete la gente che impazzisce: i centri commerciali pieni di gente, risse per strada, bottigliate. Poi mi direte se la violenza è stata sconfitta.
Cosa fai quando non scrivi, oltre a seguire il Manchester?
Guardo la televisione. Ogni volta che posso la guardo. Sinceramente non capisco quelli che ne parlano contro, io non ho mai visto niente di male nel guardare la televisione. Però effettivamente guardo soprattutto partite di calcio, quindi non vale. Leggo, sì. Mi piace leggere.
Leggi molto?
Cosa vuol dire molto?
Non so, dimmelo tu.
Leggo abbastanza, credo. Ma non mi sono mai posto il problema. Leggo molto i giornali. Leggo saggi, non molti romanzi, invece. Filosofia, abbastanza. Anche perché due dei miei figli studiano filosofia ed è un modo per parlare con loro non solo dello United. Ma leggo random, senza metodo. Credo sia giusto così. (riccardo rosa)