Da: Repubblica Napoli del 3 maggio
Il termine per la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari è stato rinviato, per la seconda volta, di un anno, poiché le strutture alternative, le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, saranno pronte non prima del 2015. È stata approvata dal Senato e passa ora alla Camera la legge di conversione del decreto di proroga, e alcuni emendamenti contengono elementi positivi, tra cui: l’adozione di misure alternative all’internamento in Opg (in realtà già oggi possibile e comunque salvo eccezioni) anche per le misure di sicurezza provvisoria, la possibilità (ma non l’obbligo) di rivedere i piani di dismissione regionali, oggi basati sulle REMS, la durata massima delle misure di sicurezza pari alla pena detentiva corrispettiva. In attesa del testo definitivo, persistono comunque molti dubbi. Soprattutto non si intacca il nodo del “doppio binario” del codice penale, né si affronta il tema della cura delle sofferenze psichiche, e quindi della prevenzione. Ma qual è oggi è la situazione dei circa duecentocinquanta internati nei due Opg campani, Aversa e Napoli? Siamo andati di persona, accompagnando il consigliere regionale Antonio Amato in visite ispettive non annunciate, e quello che abbiamo visto ci preoccupa.
La lenta dismissione dei manicomi criminali restituisce un quadro a tinte fosche dei servizi di salute mentale nel nostro paese su un duplice livello di lettura. Il primo: la persistente realtà di queste strutture. Certamente non si incontrano più scene da supplizio medioevale, non ci sono più i letti di contenzione, non abbiamo trovato uomini nudi a fissare pareti sporche di feci. Questo non elimina l’orrore né condizioni di violenza e forte disagio. Ancora ci sono i suicidi (tre negli ultimi nove mesi a Napoli) e le stanze lisce di isolamento sanitario/disciplinare; ancora mancano le docce nelle celle che restano luride, ancora si è costretti a mangiare chiusi dietro le sbarre, ancora la principale attività di socializzazione sono le cicche da fumare. La realtà degli Opg, insomma, resta estranea alla cura. E tuttavia, pure nella previsione della dismissione, i manicomi criminali ancora si riempiono, continuano sia i nuovi ingressi per reati di tipo “bagattellare” (anche di ragazzi giovanissimi) che i rientri per il fallimento delle “licenze finali di esperimento”. E sono almeno otto (sei ad Aversa e due a Napoli) gli internati con oltre venti anni di detenzione (in un caso ventinove anni).
Giungiamo così al secondo livello di lettura, quello legato all’assistenza psichiatrica. La carenza di Dipartimenti di salute mentale aperti sulle ventiquattro ore e la persistenza di cronicari, approcci terapeutici basati esclusivamente sulla somministrazione intensiva di psicofarmaci. E ancora, SPDC ospedalieri chiusi dove pure si usano contenzione ed elettroshock, servizi per l’infanzia e l’adolescenza stigmatizzanti e inappropriati, un più complessivo approccio psichiatrico privato della fenomenologia e colonizzato dalle neuroscienze. Tutto questo si traduce nell’incapacità della prevenzione, nell’inefficienza delle risposte alle crisi, nell’affidarsi a prassi custodialistiche di difesa sociale. Sopravvivono così gli Opg oggi e ci saranno, temiamo, Opg con nomi diversi domani. Né le dimissioni in residenze e comunità possono garantire, automaticamente, la soluzione della questione.
Nel racconto degli internati incontrati, spesso le strutture esterne convenzionate ripropongono, per logiche e prassi, nient’altro che i manicomi. Con l’aggravante della deficienza di controlli. Basterebbe un giro dal casertano al vesuviano, dal Lazio alla Liguria, per ritrovare, in case di riposo per anziani e centri di riabilitazione residenziali, uomini e donne, dai trent’anni in su, rinchiusi in condizioni aberranti. E pure gli appartamenti, come nella triste vicenda della ragazza del Vomero, si possono trasformare in luoghi di segregazione. Il punto nodale, allora, nel superamento degli Opg come più in generale nella definizione della presa in carico della sofferenza psichica, è quale modello di cura vogliamo adottare. Se cioè ci accontenteremo di risposte chiuse biologico-farmacologiche e detentivo-segregazioniste, magari con qualche abbellimento democratico, o invece, riprendendo Sergio Piro, vorremo cercare e ricreare più complesse e aperte tecniche e prassi di liberazione. Una ricerca oggi inattuale, che richiede investimenti, economici ma anche culturali, e fatica. Ma soprattutto, ed è forse la difficoltà maggiore, chiede di avere fede nell’uomo. (dario stefano dell’aquila / antonio esposito)