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10 Marzo 2017

La città del turismo. Venerdì all’Asilo Filangieri

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sdc

Venerdì 17 marzo, alle ore 17, nell’ambito della tre giorni Chi racconta le città 2017 (16/18 marzo), abbiamo organizzato all’ex Asilo Filangieri (vico Maffei, 4) il dibattito La città del turismo. Attori, interessi e politiche. L’incontro prevede una tavola rotonda con ricercatori e operatori del settore, introdotti dagli interventi di Cristina Mattiucci e Annunziata Berrino.

Pubblichiamo a seguire il saggio Il lavoro nel turismo. Una prova di cittadinanza scritto da quest’ultima per il libro collettivo Lo Stato della Città (Monitor edizioni, 2016) e pubblicato in questi giorni sull’omonimo sito internet, insieme ad altri contributi estratti dal libro.

*      *      *

Il lavoro nel turismo. Una prova di cittadinanza
di Annunziata Berrino

Il rapporto tra Napoli e il turismo è fondante nella storia di questo fenomeno della modernità occidentale, che per molti aspetti ha maturato proprio qui i suoi caratteri. E tuttavia Napoli è una delle città che meno si è impegnata a ricostruire e interpretare la propria vicenda; certo, si dirà, il turismo è futuro, e tuttavia l’assenza di riflessioni sul proprio percorso è anche indice di importanti criticità, che hanno inevitabili riflessi sullo stesso governo del fenomeno.

Tra secondo Settecento e primo Ottocento, Napoli è in assoluto la città più amata e desiderata in Europa. La cultura occidentale elabora, definisce e matura il canone stesso della bellezza di una città moderna proprio sul profilo di Napoli. O meglio, Napoli riesce a rispondere con i suoi caratteri a tutte le istanze della modernità occidentale: prima di tutto alimenta lo scientismo, offrendo le grandi attrazioni sismiche e vulcanologiche, poi soddisfa il nuovo canone di classicità, che non è più centrato sulla magnificenza dei luoghi pubblici, ma su un sentire privato, individuale, che legittima una rapporto intimo e personale con la classicità; infine, è capace di rispondere alle potenti istanze romantiche, grazie alla sua sensualità, alla varietà del paesaggio, al colore popolare, alla potenza della sua musicalità. Sono questi gli elementi che fanno di Napoli una delle più belle città del mondo, e ancora oggi chi vuole attingere alle radici della modernità occidentale non può che considerarne la visita come un’esperienza irrinunciabile. È questa una premessa solo apparentemente teorica, perché l’immaginario turistico si spiega proprio con la complessità delle sedimentazioni culturali.

Il passato e il presente

Dunque l’Europa, che arriva a Napoli in pellegrinaggio, ne diffonde i caratteri e ne alimenta la fama, ma contemporaneamente vi attinge a piene mani per costruire la propria modernità. L’importanza di Napoli nel turismo è tutta in questa dinamica, e non è poco. È un incantesimo destinato a durare almeno fin oltre la metà dell’Ottocento, nonostante che il governo borbonico ostacoli pesantemente il movimento in città con la propria politica poliziesca, restrittiva e vessatoria. La successiva annessione al Regno d’Italia consente maggiore libertà di azione ai visitatori e agli operatori, in particolare stranieri, ma di fatto la perdita di status di capitale ne modifica profondamente il profilo sociale, spezzandone molti fili vitali.

Nonostante ciò Napoli, nella fase espansiva di età liberale, forte di un immaginario già così strutturato, è naturalmente molto amata dai progettisti della nuova modernità, non solo perché è di fatto, in potenza, un campo di sperimentazione, ma anche perché la città attende investimenti e politiche nell’industria e appare naturale che essi siano accompagnati da interventi significativi anche nei servizi. Ai primi del Novecento è viva dunque l’idea di rilanciare l’eccezionale attrattiva della città, di ridisegnarla profondamente, di provare anche qui la dialettica avvincente tra l’antico e il moderno, come a Venezia, come a Roma, come a Parigi. Tuttavia su nessuna città come su Napoli la scelta industrialista spegne ogni progetto di rilancio nel comparto dei servizi. In nessuna città come a Napoli si riflette l’incapacità politica e culturale, caratteristica del caso italiano, di gestire congiuntamente lo sviluppo dell’industria e quello dei servizi, di conciliare antico e moderno.

In verità, gli interessi privati nel comparto turistico hanno già da tempo abbandonato la città e si sono spostati nei centri minori del golfo e sulle isole – a Sorrento e a Capri – dove già ai primi del Novecento hanno trovato piazze più libere e tranquille. In città dunque il capitale non investe nel turismo, limitandosi a rispondere in maniera occasionale a una domanda nazionale e internazionale che comunque resiste e che non accenna a spegnersi. Ma sono interessi che non solo non hanno la forza di generare cultura del lavoro, ma nemmeno la convinzione politica necessaria per operare pressioni, ma su questo torneremo più avanti.

Nella politica fascista Napoli è individuata come snodo di scambi e di servizi e ponte per l’Oltremare, ma il rafforzamento dell’appeal turistico attuato dal regime avrà una pesante battuta d’arresto a causa delle distruzioni arrecate dal secondo conflitto mondiale. La ricostruzione sarà veloce ma subito sarà surclassata dagli investimenti dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno, che daranno un’ulteriore spinta all’industria e lasceranno fuori dagli investimenti nel turismo proprio Napoli, in quanto centro urbano, prediligendo i centri costieri minori.

Negli anni Settanta la drammatica congiuntura internazionale, dovuta alle crisi petrolifere, si abbatte sulla città insieme a una devastante epidemia di colera, che scoppia nell’estate del 1973. Proprio negli anni in cui la pratica turistica dominante è la balneazione marina nella stagione estiva, la vita di spiaggia a Napoli e sulle coste limitrofe d’estate è totalmente bandita. Il mare si allontana ancora di più da Napoli. E dopo il violento terremoto in Irpinia del 1980, che ha effetti anche sulla città, in particolare sulle aree più fragili del centro antico, Napoli diventa una destinazione off limits.

La dismissione dell’industria petrolchimica ha effetti economici e sociali drammatici e accomuna Napoli al dramma del degrado ambientale delle città industriali dell’intero occidente. Alcuni centri urbani sperimentano con maggiore prontezza processi di riqualificazione, di riconversione, in una parola di gentrification, attivando la rivalutazione del proprio patrimonio immobiliare mediante ricostruzioni radicali, e contemporaneamente avviando attività sostanzialmente incentrate sui servizi e dunque sul turismo, e rivolte proprio a nuovi segmenti sociali impiegati nel terziario avanzato. Bilbao, Barcellona, Genova, Milano, Torino sono solo alcuni esempi notissimi.

Lo smantellamento dell’industria pesante restituisce subito al golfo una bellezza e una luminosità del paesaggio che sembravano ormai pregiudicate, ma certamente non basta. Dai primi anni Novanta, anche Napoli cerca di agganciare la ripresa delle città ora definite “d’arte”. Nel 1992, per iniziativa della fondazione privata Napoli Novantanove, parte un’iniziativa di apertura al pubblico di tanti beni culturali del centro antico chiusi da decenni: diventerà l’appuntamento del Maggio dei monumenti. Nel 1994 Napoli ospita il G7; lo stesso anno la pedonalizzazione della centralissima piazza Plebiscito viene presa a simbolo dell’avvio di un processo di recupero della vivibilità della città; l’anno dopo l’intero centro antico, considerato il più vasto d’Europa, è dichiarato patrimonio dell’umanità. Nel 1995 viene completato il Centro Direzionale: è un’opera che nonostante interessi il recupero di aree dismesse e sia di eccezionale rilevanza architettonica e urbanistica, è destinata a non suscitare nessuna forma di attrazione nella pratica turistica. È un segnale di non poco conto. Di fatto il turismo rivuole Napoli, e rivuole la Napoli del centro storico, che solo alla fine degli anni Novanta è fatto oggetto di un parziale master plan, che mira ad attivare un reticolo di isole di mobilità dolce. Finalmente nel 2000 viene abbattuto il muro del Varco Angioino, preludendo così simbolicamente al ricongiungimento della città al suo mare, operando una chiara citazione, ma dagli effetti assai limitati, al recupero del water front attuato da altre città portuali industriali. (continua a leggere)

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