Mercoledì 26 gennaio, alle tre del pomeriggio, un gruppo di studenti universitari contro il green pass si dà appuntamento in piazza Vittorio. Sono in pochi, ma decidono di andare a consegnare la loro lettera al rettore. Nella lettera chiedono che venga abolito l’obbligo di mostrare il lasciapassare sanitario per entrare in università perché il diritto allo studio appartiene a tutte e tutti. In particolare chiedono che istituti universitari, mense e aule studio siano liberamente accessibili e che le lezioni siano garantite senza discriminazioni. La loro lotta non intende escludere chi ha deciso di aderire alla campagna vaccinale e ancora con stupore notano che i loro colleghi studenti continuano a rimanere indifferenti, se non ostili nei loro confronti. Arrivati in rettorato, nessuno chiede il lasciapassare ed entrano senza intoppi. Il rettore si fa attendere e l’incontro è deludente: il magnifico sostiene che il green pass sia un utile strumento sanitario, senza comprendere il ragionamento dei contestatori. E così nasce l’idea di occupare l’aula magna. Sono le 16:30 e in aula c’è una lezione in corso. I pochi studenti in presenza non rivolgono neanche lo sguardo verso i compagni che hanno appena aperto lo striscione alle loro spalle. E quando si chiede al docente cosa ne pensa di quello che sta avvenendo in aula, quello risponde che non è opportuno interrompere la lezione. La lezione finisce e l’aula rimane in mano agli occupanti. Tra loro ci sono anche militanti del coordinamento valsusino contrario al lasciapassare.
La prima notte passa serena, dormono in aula magna una decina di studenti e pochi solidali. La mattina del 27 il clima nell’aula occupata è disteso, il gruppo di occupanti è cresciuto e si è fatto ancor più eterogeneo. A portare supporto morale, oltre che cibo, bevande calde e coperte per la notte, sono persone di ogni età che hanno ricevuto la notizia da diversi canali e reti informali. I più anziani mettono a disposizione le proprie esperienze di lotta studentesca degli anni Settanta, mentre i più giovani preparano striscioni e si danno da fare per allestire al meglio la sala e organizzare le attività fino a sera, quando è prevista musica dal vivo e la proiezione di un film. Alle conversazioni dei vari gruppetti si aggiunge il vociare delle telefonate. È importante che la notizia dell’occupazione circoli e raggiunga il resto del paese. Tra i motivi che hanno portato gli studenti a occupare c’è anche la speranza che il loro gesto possa ispirarne altri, replicarsi altrove.
A ora di pranzo si diffonde la notizia che gli ingressi di via Po e via Verdi sono stati chiusi e nessuno può più raggiungere l’aula magna. Sta arrivando la Digos, vogliono sgomberare – si sussurra con preoccupazione. Gli agenti in borghese giungono davvero poco dopo: sono in tre, entrano nell’aula magna e fanno un sopralluogo per tutto il primo piano. Nell’arco di pochi minuti la maggior parte degli studenti raccoglie l’indispensabile e lascia il rettorato per andare a riunirsi altrove. Le più anziane del gruppo invitano alla calma, ma non è abbastanza. Il sentimento prevalente è il timore. Gli studenti usciti dall’occupazione sono storditi, ancora frastornati. Sono stati tagliati fuori, forse si sentono un po’ in colpa. Eppure non sono ingenui o impreparati, come verrebbe da pensare. Le loro indecisioni paiono un sintomo della situazione in cui si trovano. Da reietti, che sentono di avere il mondo contro, come si può pretendere da loro mosse raffinate?
Dentro al rettorato restano due studenti insieme a un lavoratore sospeso, due blogger, una sindacalista Cub, una pensionata e chi scrive queste note. Tutti determinati a restare. Rachele, la studentessa, è fortissima. Lei studia antropologia e crede che anche questa disciplina abbia un ruolo cruciale per una lettura critica della società. La sua esperienza universitaria non riesce a soddisfare questa aspettativa. Al telefono riceve incoraggiamenti dai genitori. Anche loro hanno lottato in passato e continuano a farlo oggi. Quando una lotta è legittima non bisogna avere paura di portarla avanti, dicono. La sindacalista della Cub è navigata e fornirà un supporto fondamentale in questi giorni, non solo morale: è in costante contatto con i legali, per fare in modo che non vi siano ripercussioni pesanti. E poi c’è una pensionata di settantasei anni. Lei ha fatto il ’68 e invita tutti a non mollare, perché quello che i giovani di oggi stanno subendo è assurdo, dice.
Nel pomeriggio gli studenti usciti dall’aula magna e alcuni solidali si riuniscono davanti al rettorato. Poliziotti in borghese controllano gli ingressi e sostano agli incroci delle strade, cercando quei radi punti toccati dal sole. Due o tre solidali si avvicinano con pacchi di bottiglie d’acqua e cibo, intanto due agenti chiudono il portone. Dicono che il rettorato è chiuso fino a lunedì, intanto lavoratrici e impiegati dell’università fluiscono all’esterno. Di fatto, hanno sigillato il rettorato. Esiste, come di norma, una comunicazione del rettore? Chi ha preso la decisione di chiudere uno spazio pubblico? Gli agenti non rispondono. Nel frattempo all’interno del rettorato i poliziotti in borghese e un portavoce dell’Università di Torino dicono agli occupanti che hanno ventiquattro ore di tempo, a partire da quel momento. Superato il limite dell’ultimatum, scatteranno le denunce. Così in un pomeriggio di gennaio si dispiega un’opaca, ambigua collaborazione tra questura e ateneo nella gestione dell’ordine pubblico. Negli ultimi quindici anni, quando i collettivi studenteschi occupavano il rettorato, mai s’era agito così, chiudendo gli ingressi. Sembra quasi che il potere della questura abbia esautorato l’autonomia dell’accademia, o forse i vertici dell’Università di Torino hanno semplicemente accettato, e avallato, le mosse della polizia. I rappresentanti degli studenti negli organi di facoltà sono stati avvisati, hanno forse chiesto conto al rettore delle misure straordinarie, ma nessuna solidarietà formale, nemmeno dai collettivi, è giunta a chi occupava.
Fuori arrivano compagne, solidali, complici. Alcuni hanno da poco vissuto lo sgombero dell’occupazione in via Bersezio, in Barriera di Milano: era l’alba del mercoledì. L’aria fredda di questi giorni si fa sentire. Ecco avanza una camionetta della celere in via Verdi, mentre i raggi di sole ormai sono schermati dagli edifici. Davanti al portone in legno compare un signore con la bandiera di Israele e le date 1938-2022; pubblicisti e scribacchini dei giornali allineati non aspettano altro e qualche ora dopo un articolo moltiplica le bandiere e stigmatizza l’“oltraggio” alle vittime dell’olocausto nel giorno della memoria. Nel gruppo solidale ci sono anche lavoratori Pirelli, Avio e Bartolini chiamati dalla rete del Sicobas. Il sindacato è attivo nella protesta dei lavoratori contro il green pass. Sabato scorso lavoratori vicini al Sicobas e alla Cub hanno raccontato in piazza esperienze e sentimenti di chi è sospeso dal lavoro. Rinfrancava ascoltare voci di lavoratrici e lavoratori di comparti diversi e distanti: l’industria del cinema, le cooperative sociali, la fabbrica, gli ospedali, la scuola. Chissà da quanto non avevano modo di parlarsi e di ritrovarsi in un’esperienza comune. E ora, qui fuori dal rettorato, s’intravede un legame anche con gli studenti. Si potrebbero nutrire speranze, se solo questo isolamento fosse rotto – dall’esterno.
Il Sicobas accoglie un coordinamento di lavoratori contro il green pass nella sua sede, ogni martedì. Il coordinamento resta scevro da simboli e bandiere, forse per garantirne l’autonomia e la pluralità. Eppure in questa fase l’appoggio esplicito di un sindacato di lotta come il Sicobas sarebbe utile a questo mondo insorgente, perché contro lo stigma e le semplificazioni c’è bisogno di protezione. Questa è una delle rare volte, forse l’unica, in cui anche i vessilli e le sigle di partito non sarebbero sintomo d’opportunismo, ma utile sostegno a reietti accerchiati da accuse miopi e incomprensione. Eppure, al momento, nessuno sembra intenzionato a difenderli, forse il prezzo simbolico da pagare è troppo alto. Intanto con delle corde si sono issate vivande e coperte sul balcone che dal primo piano del rettorato s’affaccia sulla strada. È nato un presidio in strada per sostenere gli occupanti.
Nel tardo pomeriggio si presentano al presidio il giurista Mattei, affetto dal consueto delirio di egocentrismo, e un altro piccolo leader delle rivolte. Sono in cerca di attenzione ma ne ricevono davvero poca. Gli occupanti hanno deciso di passare un’altra notte in rettorato e anche i solidali fuori scelgono di restare il più possibile accanto a loro. Scende la notte e con essa la nebbia. Gli agenti in borghese non ci vogliono credere: «Ma davvero restate?», chiedono. I sette rimasti all’interno hanno la possibilità di scendere al piano terra e di affacciarsi al cancello di ferro che dà su via Po. Visti dalla strada sembrano dei reclusi, allungano le mani e prendono bibite, arance, plumcake. Sotto i portici un mondo vario di solidali discute e sorseggia birre in bottiglia, ci sono brandelli sparuti di movimento, giovani studenti e lavoratori più attempati, professoresse. Lentamente cresce la solidarietà di chi ha scelto di vaccinarsi e di lavorare con il lasciapassare, ma ritiene ingiusta la discriminazione nei luoghi pubblici o sul posto di lavoro. Gli occupanti scherzano e parlano attraverso il cancello di ferro e una di loro fa notare che nessun accademico dell’università – eccetto rarissimi casi, e vanamente – ha contestato questa situazione. Nemmeno s’è presa una posizione quantomeno critica nei confronti del lasciapassare e non s’è sentita l’esigenza di aprire un confronto, un dibattito aperto al dubbio. Si raccontano storie imbarazzanti come quella di un autorevole etnografo che a bassa voce ha detto a uno studente critico di essere d’accordo con lui, ma di avere le mani legate. Insomma, diceva la ragazza che occupava, quello che di solito è presentato come un luogo plurale, dove si devono porre le domande, è stato compatto nel negare l’ingresso a chi ha fatto una scelta consentita dall’ordinamento giuridico. All’una di notte il presidio in strada si scioglie sotto lo sguardo disgustato di un’agente in borghese e i sette occupanti se ne tornano in aula magna. Assicurano che è calda e che si sta bene.
Il risveglio, al terzo giorno di occupazione, è stato tranquillo. Poco dopo le sette ci sono solidali al cancello di via Po, hanno fornelletto da campo, caffettiera e colazione calda per chi è dentro e chi sta fuori. Alle nove gli agenti in borghese confinano gli occupanti al primo piano del rettorato, senza consentire loro di scendere. Per quale motivo? Occupanti e solidali sono stati e sono molto tranquilli. Perché impedire di parlarsi attraverso le sbarre? Intanto gli studenti occupanti hanno comunicato la loro intenzione di rimanere in aula magna fino allo scadere dell’ultimatum, ovvero alle 16, come da accordi verbali presi con il portavoce del rettore. Poco prima delle undici arriva un’agente. I suoi modi sono bruschi e tuona che gli occupanti devono andarsene entro mezzogiorno, l’accordo del giorno prima sembra non avere alcun valore. Gli occupanti restano fermi in aula, aspettano che siano gli agenti a portarli fuori. Mezz’ora dopo arriva il portavoce del rettore, Cepernich, e rassicura: «Ho fatto un accordo, non sono mica un pagliaccio». In merito all’arrivo della polizia, il giorno prima, il portavoce dice che «l’università non chiama le forze dell’ordine». E allora cos’è successo la mattina del 27? E perché adesso il portavoce dell’università contraddice un’agente di polizia? Ancora la gestione dell’ordine pubblico è vaga e inquietante, ambigua come in uno stato di eccezione.
Nel frattempo, in piazza Arbarello, il corteo che omaggia Lorenzo, lo studente morto al suo ultimo giorno di alternanza scuola-lavoro, è stato caricato dalla polizia. Tra chi manifesta ci sono anche molti minorenni e la polizia ha ferito dieci manifestanti. Gli studenti in rettorato vogliono esprimere subito la loro vicinanza con un breve video. E fuori, al presidio, una studentessa delle medie descrive le cariche delle forze dell’ordine sui suoi compagni che manifestavano. Soltanto due settimane fa, il 15 gennaio, la polizia ha caricato un corteo presso l’area della ex Westinghouse. Le ragioni dell’attacco erano le stesse di questa mattina in piazza Albarello: in tempi di emergenza pandemica non si possono svolgere manifestazioni in movimento. Sembra che la pandemia sia il pretesto utile alle forze dell’ordine per gestire la città con protervia e arbitrio. Gli occupanti in rettorato intuiscono, intravedono il filo rosso della repressione: un legame che potrebbe unire le istanze e le lotte in nome della critica e della resistenza agli abusi di potere di chi governa l’ordine pubblico. Forse pensano anche a questo, gli occupanti, quando nel pomeriggio escono in via Po tra gli applausi del presidio. (alessandra ferlito)