Il pronto soccorso del Cardarelli è da sempre una palestra insostituibile per i giovani medici, soprattutto perché permette una formazione in condizioni impossibili. Si dice che se impari a guidare a Napoli potrai poi facilmente farlo in tutto il mondo, visto il livello di difficoltà. Lo stesso può dirsi dei medici che dopo un anno al Cardarelli troverebbero semplice il lavoro in qualsiasi pronto soccorso d’Europa. Struttura affollata, carenza di personale, barelle che ormai possono considerarsi posti letto a tutti gli effetti e falle enormi nei percorsi assistenziali. È la storia comune delle strutture di pronto soccorso napoletane, o almeno delle poche rimaste aperte.
Di fronte a questo sfascio ormai strutturale, il dibattito politico è a dir poco mediocre, completamente schiacciato dalla questione del debito ma quello che sorprende di più è la mancanza di un’ampia mobilitazione popolare. Le lotte che si sono sviluppate in questi anni sui territori sono per lo più legate alla difesa di singoli presidi ospedalieri di cui si minaccia o si attua la chiusura, ma è evidente che un insieme di mobilitazioni parcellari che non guardino all’insieme del problema non può che essere una risposta di retroguardia. Il problema non è mai chiudere o non chiudere quella struttura, ma concepire un sistema organizzato dentro il quale eventuali soppressioni di strutture siano l’altra faccia di una ristrutturazione complessiva che elimini sprechi ma anche e soprattutto sviluppi percorsi efficienti e colmi le carenze attuali.
Da alcuni anni si succedono inchieste sulla situazione della sanità italiana, improntate alla descrizione dei disservizi. Le inchieste recenti sulla situazione delle strutture di pronto soccorso a Roma, così come aveva fatto in maniera brillante Fabrizio Gatti su L’Espresso qualche anno fa, fotografano una realtà che va avanti da anni in questa situazione paradossale nella quale mentre i politici sbandierano come risultati eccezionali i “risparmi” ottenuti nei bilanci, di fatto i tagli portati alla spesa pubblica in ambito sanitario hanno effetti terribili. Le immagini degli ammalati sulle barelle con alcuni pazienti legati e il solito contorno di sporcizia, caos, carenza di personale colpiscono giustamente l’immaginario collettivo e devono far parte del dibattito pubblico ma sarebbe un errore identificare le responsabilità della catastrofe unicamente nella condotta del personale sanitario. Cosa che di regola avviene e i dati sul numero di aggressioni ai dipendenti dei pronto soccorso parlano chiaro. Il punto centrale della questione è, invece, il contesto nel quale quei lavoratori si trovano ad operare. Una situazione talmente drammatica da diluire, se possibile, le responsabilità dei singoli.
Come si fa a lavorare in un pronto soccorso quando la regione Campania ne chiude tanti altri provocando un inevitabile concentramento di afflusso in poche strutture? Come si fa a limitare l’accesso improprio al pronto soccorso (che costa, e tanto) se non esiste un piano razionale di riorganizzazione della medicina sui territori? Cosa deve fare Angelo, enfisematoso settantenne, se di notte gli manca il respiro? È ovvio che correrà in uno dei pochi pronto soccorso rimasti aperti, andando a gravare sulle già esigue forze in campo impegnate nel fronteggiare traumi ed emergenze.
Su questa situazione disastrosa si è abbattuta come un macigno la spending review del governo, con provvedimenti in tema di sanità che fanno riflettere. Consapevoli della difficoltà di fronteggiare la pubblica opinione, i ministri hanno formalmente rinunciato all’annunciata soppressione degli ospedali “minori”, scaricando il peso di questa operazione sulle regioni. L’obbligo di portare lo standard regionale a 3.7 posti letto per mille abitanti partendo dai 4.1 attuali impone, de facto, alle regioni di operare una “razionalizzazione” sulle strutture sanitarie già allo stremo per i tagli degli ultimi anni. Ma la responsabilità non sarà dei Professori. Saranno circa 20.000 i letti che spariranno per un totale di quasi 1.100 unità operative e la necessità dei tagli vincola anche la nomina di nuovi primari. Tale riduzione di posti letto comporterà necessariamente una riduzione del numero di medici. Meno medici, meno posti letto, zero investimenti.
Chiunque conosca le liste d’attesa dei nostri ospedali e si sia scontrato con il caos che regna in reparti e pronto soccorso può facilmente immaginare la portata di questo provvedimento. Oltre a questa sapiente operazione dello scaricabarile, che salva la faccia del governo centrale mettendo nei guai le amministrazioni locali, sarà di 5 miliardi in tre anni il sacrificio chiesto al settore, che sommati agli 8 miliardi già tagliati dal precedente governo spezzano le gambe a qualsiasi aspirazione di miglioramento del servizio sanitario pubblico.
Negli ultimi vent’anni, il Servizio sanitario nazionale ha subito importanti modifiche, nel 1992, 1993 e nel 1999. L’ultima riforma, in particolare, accanto alla conferma dell’importanza del Ssn come strumento di tutela della salute, si poneva come obiettivo il completamento del processo di aziendalizzazione e regionalizzazione del sistema e delle strutture sanitarie, oltre a puntare alla definizione di esclusività di rapporto lavorativo per i medici e al potenziamento del ruolo dei Comuni. Questa ultima riforma, contenuta nel dlgs 229/99 e già di per sé ampiamente criticabile, viene a decadere con la modifica dell’articolo V della Costituzione gettando nel caos un sistema già pieno di falle. La legge costituzionale 18.10.2001 n.3, ispirata dalla Lega, stravolge il sistema di articolazione dei poteri fra stato e regioni, sottraendo allo stato centrale la responsabilità della sanità e attribuendola alle amministrazioni locali. Tale provvedimento costituisce un elemento di rottura del Ssn, istituito nel 1978, lasciando il “pallino” nelle mani delle Regioni che si sono trovate a dover gestire autonomamente un settore cruciale.
È passato più di un decennio da quando le regioni sono state appesantite dalla gestione dei relativi sistemi sanitari, ereditando strutture gravate da un deficit storico, figlio di una gestione clientelare della sanità, da sempre serbatoio di consensi elettorali e merce di alto valore nel mercato della politica, ai cui debiti hanno dovuto far fronte. Ecco allora che le necessarie ristrutturazioni dei sistemi regionali si sono trasformate in un continuo susseguirsi di tagli lineari che hanno impoverito il sistema stesso e strozzato senza criterio l’offerta sanitaria invece di affrontare le spese una per una e pianificare un rientro del deficit graduale e meno doloroso possibile per gli ammalati.
La manovra 2012 della regione Campania in materia di sanità conferma questo approccio “ragionieristico” a un settore che meriterebbe un’attenzione ben diversa. Il bilancio di Caldoro prevede una “razionalizzazione” dei costi che significa una serie di dolorosi sacrifici per i cittadini. La manovra, infatti, pur prevedendo tagli tesi a ridurre gli sprechi manca del tutto di progetti per la crescita e il miglioramento del servizio. In nome del risanamento di un debito sicuramente enorme, la regione non attua alcun piano per rendere più efficiente la struttura, obiettivo che richiederebbe investimenti inizialmente in perdita (come tutti gli investimenti) ma che potrebbero alla lunga rimettere in piedi la sanità regionale. Proprio questa giunta, invece, pare fermamente orientata a una rinuncia a nuovi mutui, ritenendoli un aggravio ulteriore dell’attuale situazione debitoria, mentre invece il problema è il destino del denaro che eventualmente verrebbe prestato. Se infatti l’afflusso di denaro fosse investito in settori strategici e reso immune dalle rituali ruberie effettuate dai satrapi locali, potrebbe costituire una risorsa e non un peso.
È chiaro che, di fronte a un disastro come quello della nostra sanità, sono in atto scontri di poteri e interessi enormi, che si poggiano su visioni diametralmente opposte del problema. E sicuramente anche della società nel suo complesso. Allo stato dei fatti, oggi la tutela della salute è affidata a fattori tutti estranei ai principi di universalità, uguaglianza e globalità su cui si fonderebbe il Ssn. Ti salvi se conosci un medico, se hai soldi per pagarne uno bravo, se hai parenti importanti o se il caso ti porta nella struttura giusta al momento giusto. Una chiara e inesorabile legge del censo che separa gli ammalati in base a ceto sociale e disponibilità economica. A questa situazione fanno da contorno strutture spesso fatiscenti, con standard di igiene non adeguati, carenza di personale. A questa situazione andrebbe opposto un piano di ristrutturazione che sicuramente non può avere un orizzonte breve e andrebbe programmato a lunga scadenza, e su tale scadenza organizzato il rientro del debito. I direttori aziendali e sanitari delle Asl, però, vengono nominati con criteri esclusivamente politici e cambiano a ogni rovesciamento del fronte politico.
Un legame così stretto tra i responsabili delle strategie aziendali e la politica non può che essere dannoso, lo capirebbe anche un bambino. Che interesse può avere nel mettere in campo una strategia pluriennale, un dirigente che sa di perdere la poltrona al prossimo ribaltone politico? Sganciare la direzione delle aziende dal mercato della politica, attraverso la creazione di strutture organizzative di durata indipendente dalle tornate elettorali vuol dire rendere le dirigenze in grado di programmare il riordino del sistema senza l’assillo dei debiti. Sarebbe possibile per esempio, procedere a una razionalizzazione del numero dei primari e delle relative unità operative. In Campania, infatti, le strutture considerate in eccesso sono circa 850 e fa riflettere il dato del rapporto tra unità semplici e complesse, in media dell’1,31 in Italia e nella sola Campania al 4,81. Questo significa spesa e spreco, in nome di una logica consolidata di utilizzare le dirigenze dei reparti come poltrone su cui piazzare i propri figliocci. Atro che tagli lineari.
Avere un piano pluriennale, inoltre, consentirebbe di pianificare investimenti mirati che, accanto al risparmio prevedano il miglioramento delle strutture e l’incremento dell’efficacia dell’offerta. Ma per fare questo serve denaro, e la logica secondo cui in nome del pareggio di bilancio non è più possibile accedere al credito può portare solo a una catastrofe. Un disastro di cui beneficerebbero sicuramente quanti vogliono mostrare il dissesto della sanità pubblica come motivazione fondamentale per il passaggio a un sistema di sanità privato, gestito da banche e istituti assicurativi. È una partita decisiva che si gioca sulle teste dei cittadini e che potrebbe portare alla liquidazione della sanità pubblica (vuoi vedere che determinate politiche di “rientro” del deficit sono proprio funzionali a questo disegno?) e che al momento vede agire in maniera decisa i gruppi di interesse che gravitano intorno a questo capitolo essenziale della spesa pubblica. Una sfida di simili proporzioni necessita, da parte delle forze sociali di un impegno maggiore e più maturo, di analisi oneste e scelte coraggiose. A partire dagli operatori del sistema, infermieri e medici, fra i quali è il momento di aprire un dibattito nuovo, adeguato alla posta in gioco. (antonio bove)