Sotto le forme di un’elaborata trama, il nuovo romanzo di Giovanni Iozzoli, La vita e la morte di Perzechella (Artestampa, 2016), continua ad approfondire quelli che, alla terza prova narrativa, possiamo definire come i suoi temi e il suo modo di presentarli al lettore, a cominciare dalla doppia ambientazione sull’asse nord-sud della penisola – in questo caso gli scenari principali sono Napoli e Modena, con diverse puntate nei rispettivi dintorni –, e il conseguente dualismo dei paesaggi e degli stili di vita, con la metamorfosi dei meridionali costretti a emigrare, ma anche quel sentimento di spaesamento sempre pronto a riemergere, nonostante le tanto agognate parvenze di stabilità e conformismo; il rapporto di odio e amore con la terra d’origine, che sembra quasi attirarli a sé, risucchiandoli nelle sue miserie e nel suo disordine come un destino ineluttabile; e lo sguardo dell’autore sempre diviso tra i fantasmi di un passato più o meno recente e un presente ugualmente precario per gli uni e per gli altri, meridionali e settentrionali, sotto la superficie dell’antico divario tra le aree ricche e quelle economicamente depresse del paese.
Il telaio che sorregge i diversi nuclei trematici ha stavolta l’apparenza di un tipico cold case, la bizzarra riapertura di un vecchio caso irrisolto: la morte, avvenuta sul finire degli anni Ottanta, di una giovane donna, Lucia Crescenzio detta Perzechella, contrabbandiera del centro storico napoletano, freddata a colpi di pistola in un anonimo appartamento del Vomero, dove la polizia l’aveva relegata per sottrarla a ogni contatto con il suo ambiente sociale, in vista di un’imminente deposizione. Il nome dell’assassino di Lucia noi lettori lo conosceremo (o crederemo di conoscerlo) dopo appena un quarto di libro, ma molti dei personaggi dovranno affannosamente ricercarlo fino allo svelamento delle ultime pagine.
Al centro del libro, anche se si sviluppa per poche pagine rispetto al resto della storia, c’è il breve amore tra la sottoproletaria Perzechella e lo studente Alfonso, svogliato fuori corso di Medicina che si aggira inconcludente per le strade intorno a via Mezzocannone. “C’era tra loro due un legame che non aveva bisogno di parole e neanche di sensualità. Erano due pezzi sbrecciati della stessa brocca, che si riattaccavano provvisoriamente – perfettamente combacianti –, e dentro la brocca c’era il vuoto e il buio”. Un amore forse poco realistico, che non a caso si rivelerà impossibile – come peraltro tutti gli amori in cui inciamperemo nel corso del racconto –, sintomo rivelatore di quella struttura a compartimenti stagni della società napoletana che, dietro l’apparente mescolanza della superficie, nasconde confini così solidi che è quasi impossibile valicarli.
La relazione tra Lucia e Alfonso finirà presto, e in maniera cruenta, come una parentesi quasi irreale nelle loro vite “scombinate e deluse”. Ma intorno a questa coppia primordiale sorgeranno altri abbinamenti, altrettanto spaiati e improbabili – consentendo all’autore di virare, qua e là, dal registro drammatico a quello comico –, che in qualche modo prenderanno il testimone della storia fino a condurla al suo completo esaurimento. Ci sono, in primo luogo, due scalcagnati detective che, contro ogni pronostico, riusciranno a riaprire il caso: un vecchio avvocato che un tempo aveva difeso Perzechella e se n’era segretamente innamorato, senza mai trovare il coraggio di dichiararsi; e con lui un poliziotto in pensione che scoprirà per la prima volta l’ebbrezza e il rischio di condurre in prima persona una vera investigazione, dopo una vita passata a spulciare tra i faldoni polverosi negli uffici della questura; i loro antagonisti, una coppia di truci investigatori privati provenienti dai due lati opposti della barricata – la malavita e la polizia –, riuniti in tarda età dall’istinto sempre vivo per l’intrigo e la cospirazione; e poi un ladruncolo di periferia e il suo imbranato complice, involontario testimone del delitto di Perzechella; e l’unione altrettanto improbabile, e condannata al fallimento, tra la giovane sorella dello studente Alfonso e un boss di camorra che nasconde le proprie attività illecite sotto un’apparenza bonaria e la copertura legale della pescheria di famiglia.
È come se, nell’arco di tre libri, tutti gli elementi tematici e stilistici dell’autore, pur declinati in tre storie molto diverse, siano andati cristallizzandosi in forme sempre più definite, dalle annotazioni quasi diaristiche del protagonista adolescente dei Terremotati (Manifesto libri, 2009) alla vicenda più compiuta e circoscritta dei Buttasangue, raccontata in prima persona dal protagonista operaio, fino al narratore onnisciente e al fitto intreccio del caso irrisolto di Perzechella. “C’era una logica, dunque – riflette a un certo punto il poliziotto in pensione mentre si aggira nei sotterranei del Deposito Reperti alla ricerca di qualche indizio sulla morte della contrabbandiera –. A Napoli tutte le cose andavano osservate bene, dall’interno, per superare l’aria generale di caos e occasionalità che tutto permeava”. E c’è una logica quindi anche nella scelta dell’autore di osservare le cose da vicino, minuziosamente, anche se non sempre l’esito di questa transizione verso strutture narrative più definite e complesse sembra giovare agli intenti di Iozzoli, e in quest’ultima prova, soprattutto nella prima parte del libro, la descrizione dei personaggi risulta a volte troppo insistente e dettagliata rispetto alla rapidità e alla freschezza con cui, nei Buttasangue per esempio, entrava e usciva di scena una folla altrettanto numerosa e variegata di personaggi. Un po’ sacrificate, rispetto ai romanzi precedenti, sono anche le brevi, illuminanti panoramiche che legano il passato e il presente dei protagonisti, dipingendo con pochi tratti decisi il contesto sociale in cui questi si muovono, al di fuori di ogni illusione o infingimento sulle prospettive esistenziali di ognuno. Sono, ancora una volta, tra le pagine migliori, che affiorano man mano che l’intreccio comincia a sciogliersi e l’azione prende il sopravvento. (luca rossomando)