È uno starter pack per aspiranti maradoniani più che il “lungometraggio definitivo” sul più grande genio della storia del calcio, il Diego Maradona di Asif Kapadia, documentario presentato fuori concorso all’ultimo festival di Cannes e proiettato ieri in anteprima nazionale al Modernissimo di Napoli. Ed è un vero peccato, considerando il mastodontico lavoro documentale che sostiene il film e le oltre cinquecento ore di immagini visionate e selezionate dall’autore direttamente dagli archivi segreti di casa Maradona.
La produzione inglese e il regista premio Oscar per il documentario Amy si sono conquistati la possibilità di lavorare su un materiale prezioso: le centinaia di VHS custodite dall’ex moglie di Maradona, Claudia Villafane, e tanti altri filmati inediti girati da appassionati, addetti ai lavori, ex compagni di squadra, personaggi che hanno gravitato nell’orbita di Maradona durante i suoi sette anni napoletani, a cominciare dall’ex capo del Commando Ultrà, Gennaro Montuori, alias Palummella; ma soprattutto sul girato che il suo primo storico manager, Jorge Cyterszpiler, aveva commissionato a inizio anni Ottanta agli operatori Laburu e Martucci, dandogli l’incarico di seguire Maradona in ogni suo passo – con l’idea, probabilmente, di un futuro kolossal –, riprese andate avanti fino al 1987 e che questo film ha il merito di consegnare ai posteri.
Le riprese di Laburu e Martucci costituiscono l’ossatura del film. Le immagini sono potenti, vere, restituiscono l’eccesso che ha circondato Maradona fin dai suoi primi passi all’Argentinos Junior e poi in maniera crescente a Buenos Aires, Barcellona e naturalmente durante la sua esperienza napoletana, un approdo che il ventitreenne Diego immaginava diverso, tanto da confidare ai giornalisti, prima dell’atterraggio in Italia, di essere arrivato «per trovare tranquillità». Probabile non ci credesse neanche lui, o che comunque non fosse proprio quella la parola adatta, tanto più se ti appresti a giocare in una squadra salvatasi per qualche punto nel campionato precedente e ti metti in testa di vincere tutto, impresa (quasi) riuscita in meno di cinque anni.
Tutta la prima parte del film risulta così un susseguirsi avvincente di accadimenti: l’assalto dei tifosi e la corsa in macchina nel giorno della presentazione al San Paolo, quelle verso il garage di via Scipione Capece dove si narra ci fosse un uomo appositamente stipendiato per chiudere il box un secondo dopo l’ingresso dell’auto di Diego (e prima di quello dei giornalisti); il viaggio lampo in Argentina per conciliare la nascita di Dalma e la corsa scudetto, le liti con i cronisti invadenti, le suggestive immagini calcistiche, molte delle quali realizzate dal basso, a livello del campo di gioco, con la macchina a spalla, da un’angolazione rara per quell’epoca durante la quale le possibilità tecnologiche erano assai inferiori. Le tessere sono tante e affascinanti eppure il mosaico, tenuto insieme dal montaggio serrato e dalle voci degli intervistati, non riesce a rendere la complessità del personaggio e del contesto, due tòpoi già di per sé devastanti: l’uomo del decennio, all’apice della sua potenza sportiva e mediatica, catapultato in una metropoli complicata come era Napoli nella seconda metà degli anni Ottanta.
È proprio la vitalità fotografica ed estetica di questo sodalizio, d’altronde, che spinge il regista a concentrarsi sull’epopea napoletana di Maradona, considerando che è proprio negli anni tra l’85 e il ’90 che il campione argentino raggiunge l’apice della propria maestria calcistica. Il Diego di Buenos Aires è un ventenne che intuisce le proprie potenzialità ma non è ancora del tutto conscio della sua forza. È ossessionato dal comprare una casa ai suoi genitori e sogna appena di giocare (e vincere) un Mondiale. Il primo Maradona europeo, quello spagnolo, è un mezzo incompiuto, una macchina delle meraviglie che per diverse ragioni – scarso feeling con l’ambiente blaugrana, cattivi rapporti con la società, infortuni, squalifiche, prime esperienze con la cocaina – non riesce a dare concretezza al sé sportivo. Dopo questa prima, vera, grande caduta, Maradona immagina la sua rinascita nel posto più assurdo dal quale ripartire, una città ancora in preda al caos post-terremoto, ostaggio di una delle più sanguinose guerre criminali nella storia del mondo occidentale, dove – se ne renderà conto presto – «la droga è ovunque» e in una società che aveva avuto come obiettivo massimo nei precedenti dieci anni quello di vincere una partita contro la Juventus. È una lose-bet, che invece Maradona – tanto per cambiare – vince e che crea una serie di effetti domino sulla sua vita, su quella di un’intera città e sulla storia dello sport più popolare del mondo.
Le imprese sportive, l’acclamazione popolare a bandiera del meridione sfruttato e offeso, i due mondiali – uno vinto da solo e l’altro scippatogli al minuto ottantaquattro della finale contro la Germania –, il figlio illegittimo e non riconosciuto, la cocaina, il livore della stampa e dei tifosi italiani trasformatosi in odio dopo la semifinale del ‘90: nel film si parla di tutto, tanto da diventare questo un limite, un’ossessione di completezza che sottrae spazio al Maradona interiore, al non detto, lasciando intuire soltanto nell’ultima mezzora, attraverso gli sguardi nel vuoto del campione immalinconito durante le feste in discoteca, o le mancate esultanze in momenti sportivamente trionfanti, la tristezza e l’esaurimento di quella linfa vitale che aveva contribuito, tanto quanto il talento, a rendere Maradona un uomo fuori dal comune.
Kapadia lo dichiara: ci vorrebbe un film di dieci ore per metterci tutto. Eppure rimane talmente affascinato dal suo personaggio che non riesce a fare delle scelte. La rabbia per gli assalti dei cronisti nel bagno di casa, le pressioni di una camorra (raccontata male) sempre più tentacolare, la gabbia nemmeno troppo dorata costruitagli intorno da Ferlaino e i due anni di muro contro muro; la paura per l’incolumità delle proprie figlie, l’incapacità di conciliare l’amore per Claudia e il desiderio per altre donne, l’angoscia di non riuscire ad accettare – più che riconoscere – il figlio maschio che aveva sempre desiderato, l’autodistruzione dalla domenica sera al mercoledì e il tentativo di rimettersi in piedi nei tre giorni dal giovedì fino alla partita successiva, sono tutte cose che compaiono superficialmente nel film, soprattutto considerando le enormi possibilità che gli autori avevano, le immagini del Diego privato, la chance di intervistare le persone più importanti che hanno vissuto con lui quegli anni, a cominciare da quel personaggio geniale che è El Ciego Signorini, l’uomo che aveva il potere di resuscitare Maradona ogni volta in cui veniva chiamato in causa.
L’impressione è che siano state fatte delle scelte sbagliate, o meglio sia mancato il coraggio per fare le scelte necessarie, e infatti il film dura più di due ore, trascinandosi nel finale, proprio al momento della caduta di Lucifero, quando si passano in rassegna confusamente questioni giudiziarie, squalifiche sportive, malattie, disintossicazioni, guai familiari. Risulta solo un’illusione, quella che le lacrime di un’intervista del 2004, durante la quale Diego ammette per la prima volta non i suoi errori, ma l’incapacità di liberarsene, possano chiudere il cerchio e comprimere Maradona in un’immagine. Un’illusione pari, forse, all’aver creduto di poter tenere dentro un film costruito secondo uno schema così lineare, un personaggio illogico come Diego Armando Maradona. (riccardo rosa)
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