da La Repubblica Napoli, 6 novembre 2012
Assistiamo in questi giorni all’ennesima prova della dissociazione tra parole e fatti, tra cause ed effetti che sembra colpire inesorabilmente chi ricopre posti di potere, anche se di mestiere non fa il politico ma è asceso alle cariche pubbliche solo in un recente passato. Ci ritroviamo con assessori che provengono dalla scuola, dal lavoro nel sociale, dalla cittadinanza attiva in periferia, che hanno sotto gli occhi, e in certi casi descrivono lucidamente, il naufragio rapido e doloroso dei mondi da cui provengono, e che allo stesso tempo si dichiarano assolutamente impotenti a porvi rimedio, ma non traggono da questo corto circuito alcuna conseguenza.
L’assessore alla cultura ha spiegato pochi giorni fa, in un’intervista a questo giornale, che per il settore di sua competenza, al momento, «non c’è più un euro disponibile per un solo progetto». Ha detto chiaramente che per lei la politica culturale non si fa senza un luogo, una vocazione, una comunità, e che quindi bisogna agire con urgenza, sbloccare le procedure, liberare gli spazi comunali, soprattutto in periferia. Ha affermato: chiediamo alla Regione meno soldi per il Forum delle culture e più progetti per tenere le scuole e le biblioteche aperte il pomeriggio. E ancora: dal governo centrale non vogliamo denaro a pioggia contro la dispersione scolastica ma per il tempo pieno in tutte le scuole elementari.
Nessuno, dall’interno dell’amministrazione, ha ribattuto alle sue parole. Nessuno ha detto: ha ragione; oppure: si sbaglia. Si registrano vaghi mugugni ma tutto resta voce di corridoio, chiacchiera di palazzo. Affermazioni così nette e accorate non generano più risposte pubbliche, un dibattito franco. Tutti zitti, invece. A discuterne apertamente si rischia di perdere consenso. Almeno, così credono loro. In questo clima di timorosi silenzi e pavide attese, l’unica cosa che conta sembra essere il giudizio del capo: come l’avrà presa? La sua ira colpirà o meno la voce stonata del coro?
L’assessore alle politiche sociali è stato in passato uno dei maggiori imprenditori del privato sociale, e da un certo momento in poi, a causa delle storture di un sistema che vive esclusivamente di fondi pubblici, è diventato anche il leader sindacale di questo settore. Da un anno e mezzo ricopre l’ultima parte che gli mancava nella rappresentazione, quella di amministratore, mentre ufficialmente ha abbandonato gli altri due ruoli. In questo tempo, i servizi offerti da associazioni e cooperative del terzo settore si sono ulteriormente assottigliati, le condizioni di lavoro degli operatori hanno raggiunto livelli insostenibili. I progetti sul territorio sono fermi, gli stipendi non pagati da anni, il debito di molte decine di milioni vantato dalle associazioni verso il comune è rimasto immutato, la continuità del rapporto con le persone più deboli – in un tessuto sociale già di per sé disastrato – è definitivamente saltato; anche le case famiglia chiuderanno a novembre.
Di recente l’assessore ha fatto le sue rimostranze al sindaco, ha cercato invano di far approvare una delibera che alleviasse una minima parte di queste sofferenze, ha ripetuto che la situazione è grave ma non ha trovato di meglio che auspicare un tavolo istituzionale con partiti, imprenditori e sindacati… Qualcuno afferma che sia in attesa di sfilarsi al momento giusto per accasarsi in una lista che lo candidi alle prossime elezioni legislative. Sono voci che dovrebbe smentire con forza. In un momento del genere non può lasciare nemmeno il dubbio che le sue decisioni siano influenzate da calcoli che riguardano la sua privata carriera politica.
C’è poi l’assessore all’istruzione, che in una lettera a questo giornale riconosce la crisi gravissima delle scuole dell’infanzia, scrivendo che se le sue dimissioni servissero a risolverla le avrebbe già rassegnate, mostrando così di non intendere affatto quel che si chiede a chi riveste una carica della sua responsabilità in simili frangenti. Non si tratta, infatti, di volere colpi di bacchetta magica o piccole vendette, ma di pretendere dalle istituzioni una chiarezza e tempestività nelle comunicazioni, una capacità di ascolto, un’affidabilità nel dialogo con i cittadini disorientati che in questo caso sono del tutto mancate. Per fare solo l’ultimo esempio: la data del 5 novembre, stabilita come inizio della refezione d’emergenza nelle scuole, è stata anch’essa disattesa, senza ulteriori indicazioni o scadenze. Ed è ambiguo vantare, come se fosse una generosa concessione della giunta, la delibera del 31 ottobre in cui il sindaco indica la refezione come un servizio indispensabile.
Si tratta semplicemente di un atto dovuto, che migliaia di cittadini attendono da due mesi. Ma, soprattutto, l’assessore sa bene che si tratta di un atto insufficiente. Se non si dichiara indispensabile in tempi strettissimi anche l’assunzione delle trecento maestre precarie in attesa dell’incarico, la refezione non partirà comunque in tante scuole e in tutti gli asili nido, che a quel punto si svuoteranno definitivamente. E se chiudono anche le scuole per i bambini, a Napoli, può chiudere anche palazzo San Giacomo. Gli assessori, se proprio ci tengono, possono restare dentro. (luca rossomando)