Il processo di primo grado per la morte di Francesco Mastrogiovanni, spirato durante una contenzione lunga quattro giorni nel reparto di psichiatria della Asl di Vallo della Lucania, si è concluso con la condanna per sei medici a pene che vanno da un minimo di due a un massimo di quattro anni e con l’assoluzione di dodici infermieri. Bisognerà attendere ancora, sino al terzo grado di giudizio, per disporre di una verità processuale definitiva che accerti colpe e responsabilità. Ma forse, se vogliamo rendere sin da ora giustizia alla morte di un uomo innocente, dovremmo avere la lucidità di intervenire subito per evitare che simili episodi si possano ripetere. E penso che i nodi critici da affrontare siano questi. Mastrogiovanni non si era ricoverato volontariamente. È stato ricoverato, senza una reale esigenza, in virtù di un “trattamento sanitario obbligatorio” previsto dalla legge.
Il primo interrogativo da porsi è proprio su questo dispositivo giuridico che consente di ricoverare contro la sua volontà un sofferente psichico, con l’avallo di due medici (non necessariamente psichiatri) e il decreto di un sindaco. Una procedura che si applica, secondo i dati Istat, per circa diecimila persone l’anno. È evidente che da molti anni le garanzie previste da questa procedura si siano affievolite nella pratica. Un dispositivo che dovrebbe essere utilizzato come eccezione si configura come regola. Specie perché la progressiva riduzione e chiusura dei servizi di salute mentale territoriali rende il momento acuto di una crisi gestibile solo con l’emergenza. Invece di lavorare sul potenziamento dei servizi, le uniche proposte di legge (fortunatamente arenatesi nelle sabbie di questa legislatura) prevedevano di estendere i casi di applicazione del TSO e di prolungarne la durata. La storia di Mastrogiovanni ci dimostra, in modo inequivocabile, che la presenza di uno “stigma” riduce a zero i diritti di chi abbia già in passato sofferto di un disagio psichico. In certi casi i TSO sono come le ciliege, uno tira l’altro, senza bisogno di altri approfondimenti medici.
Il secondo punto da affrontare è l’uso della contenzione. Le immagini dolorose e atroci di Mastrogiovanni legato nudo al letto non ci rimandano a un caso eccezionale, ma a una pratica quotidiana di buona parte dei dipartimenti di salute mentale di questo paese (non solo nel mezzogiorno, ma anche in celebri presidi sanitari del centro-nord). E quando non si utilizzano le fascette, in alcuni casi si utilizza ancora la vecchia tecnica dello spallaccio, il lenzuolo intrecciato dietro le spalle per tenere legate le braccia alla testa del letto. Spesso alla contenzione fisica si somma quella farmacologica, con l’unico scopo di sedare e non di intervenire a fini terapeutici. Questa “normalità” della contenzione, chimica e fisica, è una cosa che è forse sfuggita anche a quei mezzi di informazione che hanno seguito la vicenda. Nulla, invece, si toglie alla drammaticità di questa morte se la si inserisce in uno scenario di ordinarietà. È un fenomeno del quale mancano dati ufficiali (e già questo la dice lunga) e per il quale disponiamo di poche (ma puntuali) testimonianze, come, per esempio, quella della giovane scrittrice Alice Banfi.
Non bisogna attendere che si verifichino epiloghi tragici per sostenere che la contenzione è un’ orribile scorciatoia alla reale presa in carico di un sofferente psichico. Nell’economia dell’organizzazione di un reparto, certo, si perde molto meno tempo a legare che a curare. Peccato che ai medici non si chieda di custodire ma di curare e proteggere il malato.
Su questi due punti chi ha responsabilità politiche e di gestione del sistema sanitario, a ogni livello di governo (nazionale, regionale, aziendale) avrebbe il dovere di intervenire. Se vogliamo, come giustamente chiedono i familiari e gli amici di Mastrogiovanni, che tutto questo non si ripeta, dobbiamo affrontare queste questioni. Spetta a un giudice accertare le responsabilità penali di singoli comportamenti, ma spetta a una intera comunità chiedere risposte. E chi in questi anni ha lavorato per confinare alla marginalità le politiche e gli interventi a favore dei servizi di salute mentale non è meno responsabile di chi, materialmente, ha legato, rinchiuso e lasciato morire. (dario stefano dell’aquila)
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