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recensioni
4 Gennaio 2018

Le Ragazze sole di Moscato, rivisto e depotenziato

Giusy Palumbo annibale ruccello, enzo moscato, francesco saponaro, ragazze sole con qualche esperienza, teatro san ferdinando
(archivio disegni napolimonitor)
(archivio disegni napolimonitor)

“O bere o affogare”. Non c’è salvezza al Teatro San Ferdinando davanti a Ragazze sole con qualche esperienza, in scena fino al 7 gennaio, con la regia di Francesco Saponaro che, di questi tempi, scelta imperdonabile, butta acqua sul fuoco. A spegnersi è soprattutto il testo, scritto nel 1985 da Enzo Moscato dedicando ad Annibale Ruccello il ruolo di Bolero Film, e riservando per sé quello di Grand Hotel, i due travestiti emarginati in attesa di due ex carcerati, Cicala e Scialò, altrettanto marginali. Nell’adattamento di Saponaro, i femminielli sono interpretati da due donne: Veronica Mazza e Lara Sansone, entrambe smisurate, smarrite nel doppio gioco di fingersi uomini che si fingono donne. Intrappolati nel ruolo degli ex detenuti ci sono invece Carmine Paternoster e Salvatore Striano, anche loro inzuppati d’acqua.

L’impressione, fin dai primi minuti, è che il testo abbia per il regista la stessa importanza del bicchiere sul tavolo, della calza messa in testa e del giornale sfogliato sul divano, è inorganico, senza sex appeal. Le parole si sentono a fatica, viene voglia di rincorrerle a occhi chiusi, di asciugarle una a una con il phon per sentirle calde, appena uscite dalla bocca del pensiero. Invece tutto il tragico del testo originale su questa scena scompare, annegato dalla farsa. E l’effetto, quando si pratica un genere assoluto, si inverte: si ride quando si dovrebbe rabbrividire e viceversa. Eppure, ce l’ha detto Moscato, «si può giocare con il dolore. Si può fare». Manca in questa rappresentazione la potenza dell’orale, vero campo di ricerca dell’autore; non c’è l’esasperazione della lingua, né il mal di testa che dà il barocco né la luce che getta il contemporaneo. E mancano proprio perché sono la cifra di Moscato, la sua capacità di far diventare la lingua una città, «col suo centro antico e poi le parti più recenti e le periferie e, alla fine, i raccordi anulari e le pompe di benzina» come la immaginava Ingeborg Bachmann, luogo dove convivono utopia, rovina, sogno e smarrimento.

E sembrano proprio città lontane che si allontanano lampeggiando, i nomi dei personaggi: Giuseppina Bakèr, Capriccio africano, Stella tropicale, Sisetta ‘a Libanese, nel pastiche di arcaismi, soap opera e argot che spacca le parole per farne uscire lava, mica acqua. (giusy palumbo)

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