Spesso fruiamo di opere sradicate dal loro contesto originario, soprattutto spaziale. Per esempio, il concerto che ho ascoltato mercoledì 1 febbraio, al teatro di corte di Palazzo Reale. Non una chiesa, una grande chiesa. Di quelle che permettono al suono di riverberare.
Quando sono passato in bici nel primo pomeriggio stavano smantellando l’impalcatura che lambiva il lato prospiciente piazza del Plebiscito. Tra il restauro e la manutenzione, sarà senza dubbio diverso riguardare la piazza dopo l’intervento. Mi ci ero abituato. Quando sono passato in bici al ritorno, mancava un quarto d’ora alle 21. Era rimasto esclusivamente il campeggio dell’esercito.
Prendiamo posto trenta secondi prima che si abbassino le luci. Delle due fasce di luce che circondano la sala, quella superiore resta accesa. Insolito. Fanno il loro ingresso The Tallis Scholars, seguiti dal loro conductor, Peter Phillips. Sono accolti da un pubblico accorso in gran numero. Stasera, musica rinascimentale a cappella. Roba rara eseguita da chi l’ha divulgata al grande pubblico in oltre quarant’anni di attività.
Sono in undici: oltre al direttore, quattro soprani e due esecutori per ogni rimanente categoria (contralti, tenori, bassi). Sono tutti vestiti di nero, eletto colore ufficiale della musica colta. Solitamente, diremmo musica a cappella. La cappella era proprio il luogo della chiesa in cui si eseguiva la musica, e fino al Seicento la cappella era l’unico centro rilevante di attività musicale. Il programma proposto ci porta nel sedicesimo secolo, eccezion fatta per le composizioni dell’estone Arvo Part. In questi cinque secoli la musica è cambiata parecchio. Concerti del genere te lo fanno avvertire con una certa chiarezza.
All’ingresso ci sono state consegnate otto pagine a4 spillate al centro. Ospitano il programma, le biografie, rispettivamente degli scholar e del loro fondatore Phillips, le preziose e acute note di sala, il testo dei brani eseguiti, mentre il retro di copertina fa conoscere i prossimi appuntamenti, l’organigramma dell’associazione, oltre ai doverosi sponsor. Chiude l’impaginazione la formula: “Si prega di spegnere la suoneria dei cellulari”.
Lo strumento voce ha un appeal indiscutibile e riporta in primo piano il rapporto tra parola e suono nei termini di un reciproco sostegno, come la vite col suo tutore. Tutti i brani eseguiti hanno valore liturgico, dunque hanno una particolare funzione all’interno della celebrazione eucaristica, ma non trovano spazio se non nei contesti concertistici, eletti a luogo di diffusione. Oltre alla fono-fissazione: l’ensemble in oggetto ha prodotto una cinquantina di dischi, per la cronaca. E fa almeno una cinquantina di concerti qua e là nel mondo, da quarant’anni. Stasera è toccato a Napoli.
La corona con cui si chiude il primo brano è indice della qualità e della profondità della grana sonora in ascolto. Le voci s’intrecciano tra loro: seguono ognuna la propria strada così da premiare la logica dell’incontro. Succede che ogni risoluzione corale chiarifica il decorso del flusso musicale, oltre a rappresentare il marchio di fabbrica di questa musica, definita nei manuali “rinascimentale”. Cantano con la stessa leggerezza con cui girano le parti.
Le esecuzioni proposte sono impeccabili, pieni di fascino risultano gli incastri polifonici di voci potenti e timbricamente perfette. Il mio interesse cade su quei materiali che avrebbero fatto la gioia di alcuni compositori del Novecento, di Luciano Berio quanto di Trevor Wishart. Applausi che scrociano, chi si impegna di più chi di meno. Cessano appena gli esecutori riprendono le partiture.
Stavolta non vi passo il programma. Vi dico solo che le lingue in ascolto sono due. L’una ha passato il testimone all’altra in quanto lingua internazionale. Alla voce cantante del palco ribatte la voce parlante della platea nell’intervallo, attestandosi su un registro medio-basso. Il primo tempo è più d’impatto che il secondo. Sarà che dopo un po’ l’orecchio ci ha fatto l’abitudine. Alle volte si cambiano di posizione, come per mutare lo schema di gioco. Chiaramente ne risulta variato il risultato, garantito dall’indipendenza di ciascuna voce. Altre volte l’organico non è al completo. Insomma, lo schema di gioco è mobile.
Le gestualità dell’esperto direttore sono lineari, semplici ed eleganti: tutto quello che avviene sul palco è equilibrato. Viene premiata la dinamica sul piano, rari sono i forti. Costante la presenza timbrica. Pieni i silenzi, costruiti con rara efficacia. Which was the son of…, un brano costruito sull’albero genealogico di Cristo a partire dalla supposta paternità di Giuseppe, chiude il programma della serata. Per il bis pronto dell’ensemble viene proposto un Cantate homino di Claudio Monteverdi, per celebrarne i quattrocentocinquanta anni dalla nascita (la cadenza degli anniversari nelle arti non passa mai di moda). L’accento british in questo brano risulta più spiccato che in tutti i precedenti. The Tallis Scholars hanno fatto della musica sacra la loro professione di fede. (antonio mastrogiacomo)
Leave a Reply