Una tre giorni rivolta al suono ha ridisegnato per l’ultimo fine settimana di febbraio il programma delle attività dell’Asilo Filangieri. L’iniziativa – a titolo Solchi Sperimentali Fest e dedicata alla ricerca musicale in Campania – riconsegna allo spazio e alla città le vettorialità di un discorso musicale da rintracciare nelle pieghe di Geografie del suono, Mutiazioni, Disseminazioni, iniziative che ritmano la programmazione musicale dello spazio.
Questo festival delle musiche altre nasce in continuità dell’omonimo libro di Antonello Cresti, presentato proprio all’Asilo nel novembre del 2015. Dunque, si è dato corpo a un precedente bibliografico, lasciando lo spazio a quelle pratiche investigate dalla scrittura dell’autore toscano nella sua operazione di ricostruzione di un percorso musicale alternativo a quelle delle strettissime maglie discografiche. Le sezioni sono tante, sono varie e la necessità progettuale supera ogni conato organizzativo.
Chiaramente, il programma non auratico ha fatto registrare poca risposta. Le abitudini riscrivono infatti la partecipazione: ci sta che il pubblico non si adegui al rituale collettivo per ascoltare o vedere artefatti già disponibili in rete o comunque pensati esclusivamente per la loro diffusione, e non esecuzione. Insomma, stiamo parlando della sezione audiovideo e dei lavori acusmatici. In effetti, nella tre giorni, sebbene ripensati in merito a luoghi e spazi d’ascolto per facilitarne la distribuzione al pubblico, sono stati riplasmati a mo’ di muzak, sottofondo acustico o sfondo visuale, nella più incompleta e disattenta ricezione. In città manca infatti un discorso a essi dedicato, sebbene gran parte delle nostre esperienze musicali sia di questo genere. Ma si sa. Il pubblico vuole vedere l’azione, il musicista in azione.
Certo, la logica iperstrutturale della programmazione c’è. E ne va dato merito. Chiaramente, ogni iniziativa slitta di almeno metà ora per via dei sempre considerabili ritardi. Da quando l’ho lasciato hanno messo una porta, a dividere il bar dal teatro. Anche la necessità di limitare gli spazi qualche volta si fa sentire. Tanta gente affolla il bar. Così la lascio fuori, a ruminare. Dentro si continua ad allestire, nel consueto fascino del bello della diretta. L’atmosfera oltre la porta è raccolta, silenziosa nonostante si provi in tutti i modi a terminare la messa in opera del posto.
Secondo un fruttuoso prestito lessicale c’è tutta una scena, musicale, in quanto terra fertile che sustanzia la ricezione dell’iniziativa. Fino all’esplosione del pubblico del sabato conclusivo. Dipingere un quadro completo di tutte le attività che si sono svolte nei tre giorni è pressoché impossibile. Avreste dovuto prendervi parte, come se non aveste nient’altro da fare. Così, sono più i tagli che gli episodi narrati. Secondo una logica circolare, in questa sede trovano spazio la prima e l’ultima performance del festival. Il resto nel mezzo.
Cambio di programma. Si parte con Ruminanze.
Le 21:15 siglano la possibilità dell’avvio. Ben accetta l’entrata di pubblico sul palcoscenico mentre chi trova posto ai lati della sala avvia consultazioni che ricordano quelle di un post voto democratico.
Presentata lungamente in rete da uno scritto, l’iniziativa inizia senza alcuna spiegazione: gli strumentisti si impossessano della scena acustica con qualche «shhh…». Il suono di diversi strumenti che dialogano insorge mentre due corpi occupano il centro della scena. Ruminanze è una performance composita di suoni e corpi in uno spazio, ben documentata da chi piega la tecnologia a un fine documentario. Si tratta certo di suono organizzato, un lavoro a sfondo morale e didascalico che tanto vuole quanto pretende. Sotto il profilo musicale ne esce fuori una trama acustica davvero calda, rurale. Peccato che lo sperimentale si sia reificato anch’esso e che la pratica musicale in azione sia già ampiamente codificata. Altrimenti staremmo ascoltando qualcosa di veramente diverso. Dopo circa dieci minuti di suoni interviene la parola a portare il significato in scena. I corpi iniziano ad animarsi mentre la musica si fa più puntillistica, al punto da annoverare il silenzio. Le parole sono molto a caso, ma sempre con un rimando colto. I corpi, vestiti da un gioco cromatico di bianco e nero, si alzano ritti in piedi. Il ragazzo con la diamonica é seriamente bravo, dal gusto musicale più accentuato che gli altri; o meglio, dall’intenzione. Insomma, per iniziare questa rassegna una performance di non solo suono.
Finalmente tutto ritorna alla quiete, tutto si risolve. Come ogni situazione intricata, si torna ad agire in armonia, in pura quiete. Fuori alla porta si divertono di più. Qualche volta si sentono i ragazzi di fuori. In sala, in contrasto, c’è il silenzio.
Poi addirittura interviene una terza che incellofana i due corpi, porca miseria. La tragedia. Capisco solo dopo che noi del pubblico dietro la scena siamo scenografia. Cercano di divincolarsi, i corpi. Per poi trovare la forza di parlare, dire che no, non esiste la libertà mentre noi siamo invitati a sussurrare, in una performance dal punto di vista teatrale abbastanza autoreferenziale. E poi dicono grazie. E ridono, quando poco prima c’era il dolore. Così arrivano gli applausi. Il lieto fine. Sono le 22 di giovedì 23 febbraio.
Sabato 25 alle 23:30 la conduction diretta da Elio Martusciello chiude le danze. Una performance la cui orizzontalità e apertura viene definita il cuore dell’inclusività di queste musiche altre rispetto alle canoniche da industria culturale. Il beneplacito del dubbio rispetto a una considerazione del genere resta vigile. Certo è che la musica può essere gioco. E questo sembra uscire fuori dalla performance finale.
Segue tanti altri, diversi lavori. La costellazione performativa variegata affiora all’orizzonte, tanto da lasciare un po’ stranite fette di pubblico che si chiedono quale sia il filo rosso mediante cui siano collegate. Nell’orizzonte di senso della conduction vengono adeguatamente integrate. Poche pratiche come questa riescono a tirar fuori in maniera così evidente l’importanza dell’aspetto relazionale nel fare musica; non solo nel senso dell’interazione tra i musicisti, ma nel senso più generale di ospitalità e accoglienza che tramite l’ascolto e la pratica improvvisativa vengono fuori. Inoltre, un’esperienza del genere ha la capacità di stimolare l’attenzione al suono inteso nella sua apertura eminentemente didattica all’ambiente, naturale e culturale, che ci sta intorno.
La commistione di suoni da strumenti e oggetti acustici e devices elettroniche è struggente, sempre animata da percussioni e batterie che assicurano le vibes giuste ché il discorso musicale possa svilupparsi. Non c’è uniformità, ma è l’eterogenereità generale dei generi a coltivare l’attenzione ricettiva: l’orchestra è posta ai margini laterali del rettangolo mentre il conductor si trova nell’incontro delle diagonali. Il pubblico è l’area del poligono. Si gira intorno, a captare la fonte dei suoni. Altri chiudono gli occhi, assecondando la vista auricolare. Soprattutto, ci si diverte. Non manca mai l’intervento del fuori, che all’Asilo fa sempre da alveare di suono, stavolta sullo sfondo.
Per l’ennesima volta, delle serate si sono esaurite nel consumo musicale. Non di pane infatti vive l’uomo sociale. Infatti, Atalanta batte Napoli 2 a 0. (antonio mastrogiaomo)