da: dinamopress.it
Un migliaio di abitanti di Ostia hanno manifestato sabato 21 contro la proroga per altri sei mesi del commissariamento del Municipio: un’iniziativa che, sin dalla sua preparazione, è stata sommersa dalle polemiche e dagli attacchi. Questa è una pratica abituale sul litorale, da quando lo spettro della mafia ha reso molto più difficile ogni manifestazione di dissenso. La mattina stessa di sabato, un articolo di Attilio Bolzoni su Repubblica accusava i manifestanti di voler mantenere Ostia come “cosa loro”, come uno “stato nello stato” senza legge. Inoltre, la partecipazione di Casa Pound alla protesta, fin dagli incontri preparatori, ha esposto tutti i manifestanti a una seconda accusa, quella di andare “a braccetto con i fascisti”. È lo stesso espediente usato dal Pd al referendum del 4 dicembre, per screditare il 60% di votanti che hanno detto “no” alla riforma della Costituzione; ma in un territorio come Ostia, esso crea ancora più fratture e amarezze. Oltre al livello delle affiliazioni politiche, infatti, sul livello locale contano i rapporti sul territorio, la presenza e il ruolo di ognuno nel tessuto sociale.
Ostia ha una lunghissima storia di opposizione politica, di proteste, di sperimentazioni, di cultura alternativa, di occupazioni; i protagonisti di questa storia – una vera epopea, per contraddire Bolzoni – trovano senza dubbio imbarazzante condividere una manifestazione con Casa Pound, ma non possono evitare di riconoscere la sua presenza sul territorio, e anche la legittimità che ai suoi militanti attribuiscono molti ostiensi. Li conoscono personalmente; hanno condiviso con loro la scuola o le piazze, li hanno visti crescere, costruirsi una visibilità; hanno osservato con preoccupazione come la loro organizzazione tentava di mettere radici nei quartieri più disgregati, cavalcando il disagio, spesso senza successo, ma a volte riempiendo il vuoto lasciato dai loro partiti e dalle loro organizzazioni. Se non capiamo questa articolazione territoriale della politica locale, possiamo semplificare tutto, ridurre i manifestanti a fascisti e mafiosi, descrivere Ostia come Casal di Principe o Corleone, terra di clan e di gente allo sbando. Ma non otterremo altro effetto che fare il gioco terrorista dei politici e dei giornali legati al governo, per cui ogni periferia è razzista, fascista e mafiosa, e quindi ben venga il potere centrale che decide, delibera, zittisce.
Su Ostia bisogna fare un ragionamento più complesso. Sembra che il Pd abbia sperimentato sul litorale, sin dal 2015, quella stessa politica di “blitz” giustificati dall’emergenza poi implementata in tutta Roma. La delega di Marino ad Alfonso Sabella, con i suoi sequestri arbitrari “contro la mafia”, sembra la prova generale di Tronca, dei sigilli e delle multe colossali che minacciano ogni attività culturale autogestita della città. Gesti eclatanti, simbolici, che non hanno intaccato le strutture corrotte e clientelari che pretendevano di combattere, e hanno invece indebolito i territori, privandoli di risorse fondamentali e consegnandone molti alla malavita. Scopo principale di queste azioni è costruire una legittimità, fingere un’efficacia, mettere al riparo chi comanda dalle accuse di collusione; nonché rendere ancora più difficile la dissidenza. Molti ostiensi considerano il commissariamento solo una messa in scena, finalizzata a riversare sul Lido una problematica che riguarda tutta Roma. Le carte dell’inchiesta “Mondo di mezzo” menzionavano Ostia solo di striscio, come uno dei tanti territori su cui Buzzi e Carminati avevano messo le mani; la geografia del malaffare, i “luoghi di Mafia capitale”, erano quasi tutti a Roma Nord, nei quartieri bene, tra la borghesia progressista di Vigna Clara e Ponte Milvio.
All’improvviso, tutta l’attenzione è passata dal centro alla periferia, da Roma Nord a Roma Sud, e dalla borghesia al sottoproletariato. Appare Ostia: sufficientemente lontana da rendere difficile per i romani controllare le notizie, i suoi quartieri più poveri sono lo scenario ideale per una rappresentazione che distolga l’attenzione pubblica dal Campidoglio. Era il momento di fare luce su concessioni e appalti in tutta la città, su vent’anni di storia dei suoi poteri, e su tutti i mille e trecento chilometri quadrati della sua superficie: da Castelnuovo di Porto all’Eur, da Malagrotta a Roma Tre, a via di Salone. Ma il clamore dei giornali porta tutta l’attenzione su Ostia e sull’illegalità, sulla cronaca nera e sul piccolo abusivismo edilizio. Dalle pagine di Repubblica si descrive un “mondo alla rovescia” senza legge né civiltà (come se il resto di Roma rappresentasse la legge e la civiltà), dove si susseguono l’orrore delle “baracche” dell’Idroscalo, il “racket” dei garage occupati a piazza Gasparri, le torture dei “clan” degli zingari. Le operazioni anticrimine e antidroga abituali in uno dei quartieri di case popolari più bistrattati di Roma (Nuova Ostia), vengono presentate sotto l’etichetta Mafia Capitale, così come le vicende amministrative dell’ultimo quartiere autocostruito di Roma che ancora non riesce a regolarizzarsi, e che rischia nuovi sgomberi (Idroscalo).
Quello che molti ostiensi hanno chiaro è che il commissariamento è un rituale di capro espiatorio. Il capro espiatorio è un rituale preciso, con le sue regole: una parte del corpo sociale viene investita del male che affligge tutta la società, un Municipio viene espulso simbolicamente dalla città, relegato alla cronaca nera, sospeso dalla comunità democratica, per purificare tutto il resto. Roma si ripulisce ritualmente emarginando una parte di sé: esso è distinto chiaramente dalla società “civile”, caricato ritualmente di ogni negatività, poi sbattuto fuori, con un grande clamore, anch’esso rituale. Si immagina una linea sottile che divide i buoni dai cattivi, la “parte sana” contro i “veleni di Ostia”, i bravi cittadini contro lo “stato nello stato”; Angeli vs dèmoni è il nome del blog della giornalista di Repubblica che più attivamente ha promosso quest’immaginario. Queste divisioni fittizie nascondono la complessità della storia, le violenze che lo stato ha inflitto alla popolazione, l’urbanistica del disprezzo, le strategie di resistenza spesso illegali, ma spesso legittime, che gli abitanti hanno dovuto mettere in atto per sopravvivere. Scrive Corrado Stajano in un libro del 1979 su Africo, paese della Calabria dove un trasferimento di massa ha disgregato e impoverito la popolazione: “È difficile giudicare l’illecito in un paese al limite della sussistenza e della stessa sopravvivenza”. Anche a Ostia molti abitanti sono stati trasferiti in massa dai “borghetti” autocostruiti di Roma Est: Mandrione, Borghetto Prenestino, Acquedotto Felice. Come ad Africo don Stilo, vero “prete-boss”, accusava i comunisti di essere mafiosi, anche a Ostia sono spesso le associazioni di base, che hanno contrastato il potere dei gruppi criminali, a subire lo stigma e il disprezzo dei media. (stefano portelli – continua a leggere…)
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