Sono passati ventuno anni, da quando Goffredo Fofi parlò nel suo libro La grande recita della morte della sceneggiata, e dei cambiamenti che stavano attraversando il genere di Mario Merola e Pino Mauro, soffermandosi sui rapporti tra malavita, sottoproletariato urbano e musica popolare. In seguito, gli articoli del critico Federico Vacalebre, o ancora il libro Napoli… serenata calibro 9 di Marcello Ravveduto, hanno contribuito a spiegare in maniera dettagliata il rapporto tra la musica neomelodica (ormai agli onori della cronaca) e la camorra.
Vacalebre era stato il primo a dare un nome al fenomeno, il primo ad analizzarlo con attenzione, scrivendo cose che nonostante siano passati diversi anni, e le generazioni di cantanti/ascoltatori siano cambiate, sono ancora oggi da leggere con attenzione. Lo stesso discorso va fatto persino per il Gomorra di Saviano, che riprendeva la questione documentando (carte dei processi alla mano) l’abitudine da parte di alcuni dei cosiddetti “gruppi di fuoco”, a effettuare le proprie incursioni caricandosi non attraverso l’ascolto di musica rock, ma di quella neomelodica. Chi pensava di aver visto tutto sull’argomento, non aveva ancora assistito alla puntata di Crash – programma in onda il mercoledì notte su Raitre – dedicata, il 19 ottobre, alla musica neomelodica.
Il programma prevedeva una video-inchiesta girata da Valeria Coiante e dai napoletani Amalia De Simone, Walter Medolla e Simona Petricciuolo (dal titolo Il canto di malanapoli), oltre che un dibattito in studio (trascurabile per la sua ovvietà) alla presenza di due artisti napoletani, Daniele Sanzone (degli ‘A 67) e il sempreverde Raiz, fondatore e per anni uomo di punta degli Almamegretta. Come si scopriva abbastanza in fretta, però, il documentario riproponeva un repertorio già noto sul rapporto tra musica neomelodica e camorra, notizie che in teoria potrebbero essere state riprese dai testi chiave citati sopra, e riportate in video. Certo, il lavoro di indagine rende allo spettatore i video delle canzoni più controverse, oltre che le interviste a storici, giornalisti, docenti di storia della musica e cantanti vari. Per quanto riguarda i video – introdotti da una scritta in un napoletano sempre scorretto e sgrammaticato – la scelta è caduta sui casi più eclatanti (ancora una volta Femmena d’onore e Il mio amico camorrista di Lisa Castaldi o Chille va pazzo pe’ te scritta dal boss poi pentito Luigi Giuliano, solo per citarne qualcuno) che occupano buona parte del documentario, proponendo frasi e concetti spesso già anticipati dalla voce narrante.
Piuttosto che tornare su immagini e testi di cui si è parlato fino allo sfinimento, sarebbe stato interessante provare a scoprire, andando a chiedere ai cantanti, e soprattutto ad autori e produttori (che al contrario di quanto si creda non sono così restii a parlarne) se e in che modo si possano gestire richieste e pressioni provenienti dalla malavita; e perché si accetti di cantare una determinata canzone, o ancora se l’ultimo anello della catena si chieda mai da dove arrivino i soldi investiti. Per quanto riguarda le interviste, invece, l’impressione è che gli autori abbiano scelto i personaggi che potessero essere funzionali al loro discorso, a cominciare dallo spazio dedicato a Genny Fenny, un ex cantante passato alla produzione, regia e recitazione di un piccolo Gomorra fatto in casa (Sodoma, si chiama, ma forse se a qualcuno viene l’idea di girare una cosa del genere la colpa non è nemmeno tutta sua). Una pellicola, per farla breve, piena di pistole, camorristi buoni e uomini d’onore. Nessuno spazio, invece, a quelle voci che hanno disponibilità e voglia di raccontare – a patto che gli si facciano le domande giuste – una storia diversa. Quantomeno una storia che si allontani da una lettura facile e già nota del fenomeno.
Insomma, lo sforzo di quella che viene definita “inchiesta” si riduce quasi esclusivamente all’intervista al procuratore aggiunto Rosario Cantelmo e al giornalista Tommaso D’Angelo. Per quanto riguarda quest’ultima, è da sottolineare come gli autori sembrino essere sorpresi nello scoprire che il direttore di una rispettabile testata giornalistica sia la stessa persona che ha scritto i testi di alcune canzoni neomelodiche, dimenticando che già dai tempi della sceneggiata gli autori non erano solo gente del popolo, ma spesso scaltri borghesi che riuscivano a proporre canovacci poi rivelatisi fortunatissimi da un punto di vista commerciale. Non un minuto viene sprecato per documentare i reali rapporti tra il mondo neomelodico e la camorra (l’unico a dare qualche dato è il giudice Cantelmo, che parla dell’emittente Radio Ercolano) e le vite dei protagonisti di questo rapporto. Nemmeno un minuto per provare a indicare le differenze tra chi si fa portatore orgoglioso di ambigui discorsi e chi invece se ne sente obbligato a causa di favori da ricambiare; tra chi descrive nelle proprie canzoni la realtà del carcere e chi santifica il boss.
Gli autori concedono invece una sorta di valenza sociale ai cantanti (Antoine su tutti) che per scelta hanno deciso di non toccare nelle loro canzoni il rapporto tra la città e la camorra. A loro va un implicito riconoscimento, a loro viene dato atto della capacità di raccontare la città reale. Non appena, invece, il testo si spinge a parlare di camorra, sembra che questo diventi, sempre e comunque, un’apologia del boss o il messaggio cifrato per qualche pregiudicato ancora in libertà.
Quello che viene fuori dai trenta minuti di documentario, è la solita lezioncina che allo stesso tempo compiace e indigna la borghesia napoletana, divertendo invece chi ci osserva da fuori. Lo stesso approccio mostrato nei giorni scorsi in alcune puntate della fiction Un posto al sole, in cui ancora una volta il personaggio del cantante neomelodico diventa una macchietta di cui prendersi gioco. Era lecito sperare che due brave giornaliste, per di più napoletane, riuscissero a dare un taglio più approfondito alla questione, provando almeno ad aggiungere qualche tassello rilevante a un dibattito che ruota ormai da troppo tempo intorno agli stessi luoghi comuni. (riccardo rosa)