A Milano, tra il 10 e l’11 novembre 2020 si è chiusa la gara di vendita dell’area dell’ex-scalo di Porta Romana, uno dei sette scali ferroviari milanesi dismessi o in fase di dismissione. L’operazione, organizzata da FS Sistemi Urbani (società del gruppo FS che si occupa di gestire il patrimonio immobiliare delle Ferrovie), si inserisce nel contesto di uno dei progetti di “rigenerazione urbana” più grandi d’Europa e al centro di quella che venne definita la “terza rivoluzione urbanistica” di Milano. Ne avevamo scritto a giugno 2019, quando vedevamo negli scali messi a bando chiari segnali della futura “turbo-città privatizzata dalle élite”. Gli scali milanesi (Farini, Greco-Breda, Lambrate, Porta Romana, Rogoredo, Porta Genova e San Cristoforo), aree vuote o quasi, dislocate in zone semi-centrali della città, coprono complessivamente una superficie di oltre un milione di metri quadri. La loro trasformazione sarà in grado di cambiare il volto di interi quartieri e, ovviamente, di attrarre enormi interessi privati.
Tra i sei gruppi immobiliari che si sono disputati l’area di Porta Romana, su cui dovrà sorgere il villaggio olimpico Milano-Cortina 2026, l’assegnazione è andata alla cordata composta da Coima, Convivio e la casa di moda Prada. Come riportato da un articolo del Sole 24 Ore e rilanciato nella puntata del nostro podcast Fuori Fase, dedicata agli scali ferroviari, la gara partita con sei contendenti ha visto diversi ritiri sospetti dell’ultima ora per varie motivazioni, in primis un bando diventato più rigido durante la procedura e, in secondo luogo, la clausola che richiedeva ai partecipanti di aver già costituito un fondo immobiliare per accogliere l’area. Tutto questo parrebbe fatto (condizionale d’obbligo) con l’intento di favorire la cordata Coima-Convivio-Prada, risultata poi di fatto vincitrice della gara. Per quanto non ci sia (ancora) nessuna prova a supporto di questa tesi, l’esito della gara la dice lunga su come i grandi operatori immobiliari della città si stiano muovendo per spartirsi il futuro sviluppo urbano di Milano: Coima, che ha di fatto sostituito quello che un tempo era il ruolo giocato da Ligresti – suoi sono, per esempio, i progetti di Porta Nuova e Fondazione Feltrinelli – e Prada, che ha ingenti interessi immobiliari a Milano Sud, come testimonia la recente costruzione della sua fondazione accanto allo scalo.
Quando si parla degli ex-scali ferroviari milanesi è necessario fare una premessa. Le sette aree, come le conosciamo adesso, sono frutto di un “peccato originale”: di proprietà di Ferrovie dello Stato, in passato godevano del titolo di area pubblica. Nel 1992 FS, grazie a una legge ad hoc, fu trasformata in S.p.A. La nuova società divise l’attività in molti rami, affidando il compito di amministrare il patrimonio a FS Sistemi Urbani, che ha sempre più assunto il profilo e l’obiettivo di un operatore privato: valorizzare gli asset immobiliari di FS, soprattutto in ambito urbano. Quindi, come ha scritto Lucia Tozzi, “quelle che erano aree da gestire nell’interesse dei cittadini si sono trasformate in aree da sviluppare per arricchire società private o pubbliche che si comportano da private”.
Il secondo “peccato capitale” avviene nel 2017 con l’Accordo di programma tra Comune, Regione e FS Sistemi Urbani che dopo diversi anni di attesa trova una cornice generale all’interno del PGT (Piano di governo del territorio) per il piano di sviluppo degli ex-scali. L’anomalia riguarda l’architettura finanziaria dell’accordo: si stima che l’operazione scali genererà nel suo complesso ricavi intorno ai 2,5-2,8 miliardi di euro a fronte di costi di circa 1,5-1,8 miliardi. Di questa plusvalenza di circa un miliardo le casse pubbliche raccoglieranno le briciole, ovvero 131 milioni – il 13% circa, un sesto di quanto raccoglierebbe per esempio il governo tedesco se questa operazione fosse condotta in Germania. Già dai primi numeri è evidente che si tratta di un accordo molto sbilanciato nei confronti della controparte privata.
Non essendo possibile, nello spazio di un singolo intervento, entrare nel merito di ciascuno dei sette progetti degli ex-scali ferroviari, vale la pena tentare di mettere a fuoco alcuni aspetti dell’impianto retorico e ideologico su cui poggia l’intera operazione.
Il primo elemento di critica riguarda il social housing, o edilizia sociale, uno strumento che dovrebbe offrire alloggi a canone concordato alle fasce di popolazione con redditi medi o medio-bassi. Tutti i progetti di riqualificazione degli ex-scali ferroviari pongono grandissima enfasi sulla quota di alloggi destinati a questo tipo di edilizia. In realtà l’edilizia convenzionata è uno strumento assolutamente inadatto ad affrontare la situazione di crisi abitativa delle fasce più deboli, per i criteri di accesso previsti: occorre essere un soggetto già tutelato (e che a sua volta tutela la proprietà) per farne utilizzo, richiede un contratto di lavoro stabile, un anticipo e la possibilità di sostenere costi molto più alti di quelli per una casa popolare. Nella dinamica edificatoria milanese l’housing sociale finisce così per diventare uno strumento “premiante” di regolazione delle volumetrie, un classico gentlemen’s agreement: in presenza di housing sociale, il soggetto regolatore pubblico (Comune) concede al privato il permesso di costruire di più.
Il secondo elemento di critica riguarda il green-washing: una strategia di comunicazione che mira a sostenere e valorizzare la reputazione ambientale di un’impresa o di un progetto unicamente per trarne benefici di immagine, senza nessun comprovato miglioramento ambientale. Gli scali ferroviari, come tutti i grandi interventi immobiliari milanesi di questi ultimi anni (il Bosco Verticale è forse l’esempio più celebre), vanno in questa direzione. Dal “grande bosco lineare” dello Scalo Farini al Limpidarium d’acqua dello Scalo di San Cristoforo per la depurazione delle acque, i progetti degli scali sono un continuo abuso di tecniche di green-washing.
Se l’incremento di spazio verde e la tutela ambientale fossero veramente nella lista di priorità del soggetto regolatore pubblico, la soluzione sarebbe molto più semplice e allo stesso tempo radicale. Tra le varie alternative che furono proposte al tempo dell’Accordo di programma del 2017 sugli scali ferroviari c’era la cosiddetta “opzione 0”, ovvero la possibilità che queste aree tornassero alla collettività senza alcuno sviluppo immobiliare, né residenziale, commerciale o di servizi. Questa alternativa immaginava l’area degli scali come un enorme parco al servizio della città, un vero polmone verde. Una soluzione che già parecchie metropoli occidentali hanno messo in pratica negli ultimi anni (il caso forse più emblematico è l’ex aeroporto Tempelhof di Berlino, che nel 2010 è stato interamente riconvertito a parco pubblico). Il costo di questa operazione sarebbe quantificabile nelle sole opere di bonifica delle aree, stimate da FS Sistemi Urbani intorno ai 160 milioni di euro (che, invece, per l’attuale progetto di “riqualificazione” sullo scalo Romana, sono previste in modalità semplificata e leggera, come dichiarato dalla ministra De Micheli del Pd), una risorsa che il soggetto regolatore pubblico potrebbe facilmente reperire consentendo a FS Sistemi Urbani di costruire lo stretto necessario dal quale ricavare un utile da reinvestire nella bonifica. Una strada che ovviamente né FS Sistemi Urbani, né comune di Milano e la sua controparte privata hanno alcun interesse a percorrere. (offtopic)