Torpignattara è uno di quei quartieri di Roma dove periodicamente arrivano gli sciacalli. Sciacalli di destra, di sinistra, di estrema destra e di estrema sinistra. Cercano di immergersi in uno spazio, per qualche ora o per qualche settimana, pensano di catturarne l’essenza profonda, immaginano di coglierne la chiave per azzeccare l’interpretazione giusta. Generalmente sbagliano fuoco, restano schiacciati dall’incapacità di muoversi in un territorio che non conoscono e se sono anche in malafede inventano di sana pianta bufale inimmaginabili.
Negli ultimi anni la smania di cercare lo scoop su Torpignattara e la presunzione di avere la ricetta giusta per spiegare i problemi del quartiere hanno camminato di pari passo, soprattutto nei periodi in cui questa zona è salita agli onori delle cronache, cittadine e nazionali. L’omicidio di Muhammad Shahzad Khan, avvenuto il 18 settembre 2014, è uno di questi momenti.
Giuliano Santoro ha deciso di partire da questo omicidio e di raccontare Torpignattara muovendosi da una prospettiva inedita, che con gli sciacalli non ha nulla a che spartire. Il suo Al palo della morte. Storia di un omicidio in una periferia meticcia (Alegre, 2015) costituisce uno dei primi tentativi di racconto del quartiere e delle sue vicende che non resta schiacciato sulle categorie egemoni nel dibattito pubblico (degrado, riqualificazione, marginalità, sviluppo, sottosviluppo) ma che guarda a un orizzonte più complesso, capace di risalire alle origini storiche del territorio e alle sue caratteristiche sociali, per arrivare a descrivere la congiuntura in cui è stato ucciso Muhammad Shahzad Khan seguendo in modo preciso le traiettorie dei diversi attori in campo.
Santoro si muove su un terreno in cui la dimensione locale e quella nazionale e addirittura globale si alternano e si rincorrono, affiancando alla descrizione della tragica serata dell’omicidio la ricostruzione degli eventi storici e politici che in qualche modo sono riconducibili ai protagonisti di quella serata.
Le tappe che hanno caratterizzato la storia antica e recente del quartiere sono elencate più o meno tutte: il fascismo, la resistenza, l’immigrazione interna, la nuova immigrazione straniera, per dirne solo alcune. Come pure la cornice politica che le ha caratterizzate: la speculazione edilizia, le lotte per la casa, il protagonismo delle sinistre, il potere democristiano. E sono tratteggiati i soggetti sociali che oggi rappresentano il frutto di quelle stratificazioni, in un clima di tensione reso ancora più incandescente dalla crisi: le famiglie italiane e “romane” che vantano una presenza in loco da più generazioni; le giovani coppie arrivate di recente e attirate dai costi relativamente bassi delle case e da un clima apparentemente favorevole allo scambio culturale; le generazioni di immigrati stranieri che abitano nella zona e non sono affatto tutte uguali, per provenienza, collocazione di classe, per il modo con cui scelgono di vivere il quartiere.
Il corto circuito avviene la sera del 18 settembre 2014, quando Muhammad Shahzad Khan, pakistano, arrivato a Roma da poco tempo, padre di una bambina residente ancora al paese di origine, camminando per strada in uno stato di alterazione inizia a cantare ad alta voce e a ripetere frasi che in molti non riescono a capire. Incontra sulla sua strada un gruppetto di ragazzini e uno di questi, incitato e spalleggiato dal padre, lo colpisce in modo talmente violento da ucciderlo. Alcuni testimoni denunciano l’accaduto e ribadiscono in tribunale ciò che hanno visto: la scena di un omicidio brutale e spietato. Il ragazzo, diciassettenne, viene condannato a otto anni. Suo padre viene condannato a ventuno anni di reclusione. Già nei giorni successivi all’omicidio nel quartiere si diffonde un moto di solidarietà nei confronti dell’assassino, i suoi amici e familiari ne chiedono la liberazione, organizzando anche un corteo e diverse iniziative pubbliche. Si muove anche la comunità pakistana, che insieme ad altri gruppi solidali organizza una manifestazione e una raccolta di fondi per la famiglia della vittima. Alcuni testimoni dell’omicidio sono costretti a cambiare quartiere: il clima è insostenibile, non riescono più a vivere in quella strada.
Nei mesi successivi numerose zone della città vivono situazioni di tensione legate all’azione di gruppi e comitati che si oppongono alla presenza degli immigrati denunciando l’abbandono dei rispettivi territori. Nel dicembre 2014 l’inchiesta Mafia Capitale porta all’attenzione dell’opinione pubblica l’intreccio criminale che governa pezzi importanti di Roma, con significativi riferimenti al mondo dell’estrema destra e alla gestione dell’accoglienza dei profughi. Nel volume i riferimenti al modo con cui i quartieri di periferia vengono rappresentati sono molteplici, a partire dal riferimento al “palo della morte” di verdoniana memoria, che ci aiuta a collocare i confini e i loro continui spostamenti dentro una metropoli.
L’autore ha utilizzato fonti diverse: inchieste sociali e istituzionali, atti giudiziari, interviste, articoli, dichiarazioni dei politici. Si ricompone un puzzle fatto di pezzi apparentemente distanti tra loro, che trovano però una coerenza nel momento in cui vengono messi in relazione all’omicidio del 2014. Le politiche abitative e la storia della Pantanella, Salvini e i tagli al sociale, la precarietà delle nuove generazioni e i conflitti degli anni Settanta, il fascismo e la resistenza, l’urbanistica e l’antropologia: un insieme di voci che restituisce la giusta complessità e una profondità non scontata alla vita di un territorio, perennemente schiacciato da sguardi che anche quando cercano di essere complici peccano generalmente di superficialità e di approssimazione.
La narrazione di Santoro è coinvolgente e puntuale, ma l’oscillazione della scala con cui vengono ricostruiti i fatti, tra “macro” e “micro”, non è sempre equilibrata. Il volume è davvero chiaro, documentato e convincente quando si muove nel contesto macro: neoliberismo, politiche razziste, dinamiche di esclusione, crisi delle sinistre, avanzata della xenofobia, gentrificazione, crisi economica sono raccontati con grande precisione. Quando invece il racconto si sposta sulla ricaduta locale, il quadro è meno chiaro. Vengono citati i numerosi comitati di quartiere attivi nella zona ma non vengono adeguatamente messi a fuoco, con le loro caratteristiche e le loro differenze. Si tratta di un elemento cruciale, anche per capire le convulse settimane che hanno preceduto l’omicidio: manifestazioni, iniziative, blocchi stradali contro il “degrado” di Torpignattara, dove ognuno ha potuto gettare nel mucchio le rispettive insoddisfazioni, dove anche attorno alla presenza degli immigrati si sono coagulate frustrazioni e accuse. Una maggiore chiarezza rispetto a ciò avrebbe aiutato i lettori a capire non solo il contesto precedente all’omicidio ma tutto ciò che ne è seguito.
Maggiore spazio avrebbe meritato anche il tema, più volte accennato, del ruolo delle istituzioni. L’attuale sfascio urbanistico, infrastrutturale, nella manutenzione ordinaria del quartiere è sotto gli occhi di tutti. E basta percorrere con un po’ di attenzione le vie e le piazze che circondano la strada dove è avvenuto l’omicidio per capire che queste responsabilità pesano come un macigno sugli amministratori che negli ultimi vent’anni hanno governato la città: quasi sempre di centrosinistra per quanto riguarda il comune, ininterrottamente di centrosinistra per quanto riguarda il municipio, oggi V, prima VI. Cantieri aperti e mai finiti (ben tre, di grandi dimensioni, stracolmi di spazzatura), voragini aperte e richiuse dopo anni, i pochissimi giochi per i bambini devastati, la centralina che rileva le polveri sottili eternamente sopra i livelli già di manica larga imposti dalla legge; un mercato all’aperto semiabbandonato, una piazza ricoperta di cemento… l’elenco potrebbe continuare a lungo. Non è un destino inevitabile, quello di questi quartieri: c’è qualcuno che con la propria presenza e la propria assenza lo ha determinato. E questa azione non ha riguardato solo le istituzioni, ma ha coinvolto settori del mondo economico, come le famiglie di palazzinari che possiedono importanti fette di patrimonio immobiliare e che al momento opportuno riescono, anche a Torpignattara, a fare puntualmente i loro affari.
Restando sul micro, anche le pratiche degli operatori sociali, degli insegnanti, degli attivisti che pure non mancano nella zona andrebbero spiegate e dipanate con più cura. I gruppi più attivi hanno diverse strategie, modi differenti di rapportarsi alle istituzioni, hanno maturato ognuno la propria lettura delle trasformazioni del quartiere e questa presenza non può indistintamente essere racchiusa sotto l’etichetta dei “buoni”, ma va adeguatamente ricostruita, isolando i percorsi e gli obiettivi. Esiste una specificità del territorio che Santoro racconta, e che non tutti hanno compreso, se sul Manifesto del 18 dicembre Simone Pieranni nel recensire il volume sostiene che “potrebbe trattarsi di qualsiasi città al mondo” e che la città raccontata nei cambiamenti descritti “potrebbe essere Londra, Berlino, Parigi”.
Ritornare al micro è oggi essenziale e irrinunciabile e per farlo occorre dotarsi di quegli strumenti di analisi e di quelle categorie che Santoro riesce efficacemente a utilizzare. Ma non basta. Il micro va presidiato, indagato metro per metro, raccontato fino all’ultimo bar e all’ultimo garage, solo così sarà possibile capirne fino in fondo le contraddizioni, per non restarne definitivamente fagocitati. E per liberarsi una volta per tutte di chi con tali contraddizioni ha alimentato il proprio potere piccolo e grande (legale e illegale) e di chi ci ha galleggiato sopra politicamente. (michele colucci)