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13 Gennaio 2016

La morte del cinema. Imprenditori e cultura a Napoli

Riccardo Rosa carrefour, cinema ambasciatori, dop, gourmet, hart, luciano stella, manchester city, via crispi
(disegno di Giovanni Colaneri)
(disegno di Giovanni Colaneri)

Il testo che segue è la versione integrale di un articolo pubblicato da Il Corriere del Mezzogiorno il 13 gennaio

L’avevo letto sul giornale un mesetto fa, ma avevo rimosso. Quei titoli che vedi, non vuoi vedere, e passi oltre. Il cinema cambia look. Oppure: Il cinema futuristico a Napoli. Stamattina sono andato a cercarlo. La cronaca di un quotidiano locale recitava: “Hart significa cuore in olandese, ma è anche un neologismo che contiene le parole inglesi arte e terra. Il logo è un tatuaggio con al centro un cuore disegnato dal giovane artista tattoo, Giorgio Chirico. «Investo in luoghi di cui mi piacerebbe essere spettatore», spiega l’imprenditore Luciano Stella. «Il locale nasce dalla volontà di rilanciare la mission principale del cinema Ambasciatori in una chiave totalmente nuova e di multiprogrammazione. Vogliamo regalare al nostro pubblico proposte stimolanti ricreando un’atmosfera più intima, quasi casalinga, con la possibilità di bere e mangiare in sala. L’offerta – prosegue – si muove fra tradizione e innovazione, basso e alto, leggero e impegnato. Il pubblico è trasversale, una generazione offbeat libera da schemi e costrizioni del mercato»”.

È stato un paio di sere fa, quando ho scoperto che Hart non è soltanto il nome del portiere del Manchester City, che mi sono reso conto di essere evidentemente onbeat. All’Ambasciatori di via Crispi ci sono andato perché il film, a un orario decente, lo davano solo lì. Colpa mia, lo so. È che sono distratto. E ho finito di lavorare tardi. Ma non potevo immaginare.

Non potevo immaginare che esiste un cinema dove l’olezzo di formaggio ti devasta più del ruminare degli spettatori durante tutta la durata del film. Non potevo immaginare che esiste un cinema dove il volume a cui viene trasmesso il film è più basso del televisore di casa di mia madre. E in quanto a mia madre, lei è assai più discreta degli impiegati dell’Hart nello sparecchiare la tavola, se qualcuno sta guardando la televisione. Perché guardare un film con quel tintinnio di stoviglie continuo nelle orecchie, lo sa anche lei, non è una cosa piacevole. Tanto per chiudere il discorso, a casa di mia madre nessuno disturba armeggiando continuamente con le monetine della cassa per dare il resto ai clienti, anche perché quando vado lì e mi butto sul divano, un gateau di verza o una frittata di cavolfiore non si pagano cinque euro. Anzi non si sono mai visti.

Non potevo immaginare che esiste un cinema in cui alle tue spalle c’è più luce al neon che in un Carrefour notturno, e il vociare ricorda quello dei mercatini rionali all’ora di punta; in cui un ragazzino per abbracciare la fidanzata dovrebbe avere le braccia lunghe due metri, tanto è grande lo spazio tra una poltrona e l’altra; dove l’intervallo dura quasi venti minuti, un lasso di tempo in cui si svolge frenetica un’attività di compra-vendita di cibo e alcoolici di ogni sorta, che ti fa quasi rimpiangere il tintinnio dei bicchieri durante la proiezione, il tutto sotto luci da discoteca rossoverdiblu che dopo il buio (si fa per dire) di qualche secondo prima, sono peggio di quando ai calciatori puntano quei laser negli occhi durante le partite. Non potevo immaginare, certo, ma probabilmente è colpa mia.

Fa un certo effetto che a organizzare questo scempio, investendo quasi un milione di euro, siano due  “imprenditori della cultura” che si fanno lustro di portare il buon nome di Napoli nel mondo, rispettivamente nel campo cinematografico e musicale. Coadiuvati, ovviamente, da un noto marchio cittadino che opera nel settore gastronomico, puntando tutto sui prodotti di eccellenza, venduti a prezzi da capogiro, in nome dell’ultimo irrefrenabile contagio. Un contagio che, senza che neppure ce ne accorgiamo, va creando una dicotomia da cui è difficile uscire: junk food, patatine olandesi iperfritte e roba di questo genere, in quantità pantagrueliche e a prezzi stracciati, da un lato; prodotti d.o.p., prelibatezze raffinate o presunte tali, a misere dosi, costosissime, dall’altro. Come dire: arrendersi o perire (di fame), ma questa è un’altra storia, o forse no. Il matrimonio tra il cinema e il gourmet funziona così bene (la sala era quasi piena) perché la novità è successo. Perché i volti degli spettatori presenti erano quelli del salotto buono di Napoli, alla ricerca di una nuova bizzarria qualsiasi a dieci euro a ingresso, con lo stesso spirito con cui se ne spendono cinque per un toast alla crema di asparagi e con una fettina di zucchina dentro, che sa di aria o poco altro. Il tutto comprimendo il tempo di consumo al minimo possibile, per passare oltre. Tanto che appena finisce il film, senza nemmeno darti il tempo di leggere come si chiama quell’attore americano che non ti ricordi il nome, un addetto apre le porte della sala sulla strada, inondando l’Hart di un freddo gelido, costringendoti ad andar via.

Forse era il caso di spendere due parole anche sul film, ma non sono riuscito a seguire bene. Aspetterò di vederlo al cinema. (riccardo rosa)

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