Sarà presentato lunedì 18 gennaio (ore 18,00), Il fuoco a mare. Ascesa e declino di una città-cantiere del sud Italia (Napoli Monitor, 216 pp. – 15 euro). Il libro, scritto da Andrea Bottalico, è un reportage narrativo sul lavoro nei cantieri navali di Castellammare di Stabia, un tempo terza città industriale della regione.
Per l’occasione l’autore incontrerà Antonio Grieco, alla Sala Assoli del Teatro Nuovo (vico Lungo Teatro Nuovo, 11o).
Pubblichiamo a seguire un estratto del libro.
Gli altri della sua generazione erano finiti, chi di vecchiaia, chi di mesotelioma polmonare. Quelli come Raffaele venivano mandati alla scuola sindacale ad Ariccia, tra i colli romani. Erano quadri militanti, non accettavano di farsi mettere i piedi in testa da nessuno. E poi le condizioni di lavoro dentro al Cantiere erano dure e rischiose: solo un sindacato forte avrebbe potuto tutelare tutti quei lavoratori. Raffaele diceva di non avere mai avuto una visione draconiana del lavoro. Se le navi non c’erano non c’era lavoro, e il lavoro di certo non avrebbero potuto inventarselo. Erano rotelle di un immenso ingranaggio. Tuttavia costruire navi diventava sempre più una questione politica, dettata da scelte che stavano a monte del processo produttivo e che non dipendevano solo da loro. I compagni del consiglio di fabbrica affermavano, sbattendo il pugno sul tavolo, che erano nati per fare le navi e le navi dovevano costruirle a vita, fino alla fine, ma Raffaele in certi momenti pensava anche a un’alternativa. Dove stava scritto che bisognava buttare il sangue in quelle navi? Lo sapevano, gli operai, chi avrebbero arricchito? Lo sapevano che quelle navi servivano agli stati per fare le loro guerre? Perché, dentro al Cantiere da cui era sceso a mare l’Amerigo, stavano iniziando a costruire quei cassoni così orrendi? E che miglioramenti avrebbero portato i nuovi macchinari automatici? La situazione cambiava in fretta. Erano alcune delle domande che emergevano, in particolar modo il giorno dopo le tragedie, quando lo sconforto e il dolore prevalevano sul silenzio.
Raffaele non riusciva a ostentare la rabbia. Gli toccavano sempre i discorsi di commiato dei compagni morti perché nessuno se la sentiva di parlare in quelle circostanze; si commuovevano, come si commuoveva lui mentre parlava dando le spalle all’arenile, cercando di nascondere sia a me che a Totore gli occhi lucidi dietro agli occhiali spessi. Li teneva a mente tutti quanti e guardava da un’altra parte pensando alla fine che avevano fatto Arturo Di Maio e Giovanni Inserra, il figlioccio di Alfredo della manutenzione, che mi aveva mostrato la sua foto con dietro la poesia in sua memoria. E quel giorno in cui scoppiò la tank, una nave militare specializzata per le operazioni anfibie, simile a quelle che sbarcarono in Sicilia e in Normandia durante la seconda guerra mondiale. La notte gli operai erano andati a pitturare nelle stive, bisognava aspettare qualche ora e invece la mattina dopo qualcuno, ignaro, andò a saldare proprio là: una scintilla, il calore, i gas, un boato improvviso. Carrese si trovava a passare sopra la stiva proprio nel momento dello scoppio e fu proiettato con tutta la lamiera fuori dal Cantiere, a quattrocento metri di distanza. Dalla banchina, a quel pover’uomo lo andarono a prendere in un gozzo ormeggiato vicino alla fonte d’acqua della Madonna. (continua a leggere)