Mezza giornata a Napoli, giusto mezza giornata prima di ripartire e mi becco la presentazione del Napoli Teatro Festival Italia 2019. Sono un uomo fortunato.
Così stamattina, per esempio, in un bel discorso che in sé ha stretto l’immancabile Proust, la filosofia, l’architettura contemporanea, alcune terzine tratte dal canto V dell’Inferno dantesco e la fidanzata del figlio di un suo amico (bella, simpatica, intelligente “ma che non fa metafore”), Ruggero Cappuccio ci ha spiegato che no, le metafore non si fanno più al giorno d’oggi e che sarebbe ora di tornare a farle.
Probabilmente Cappuccio ha ragione, e adesso che sono di nuovo in viaggio provo a pensarci a quest’assenza di metafore. Tuttavia, se queste sono ormai rare, in compenso proliferano certe strane costruzioni retorico-numeriche. Un esempio? Lo stesso Cappuccio ha dichiarato che «il 70% degli spettacoli» del Napoli Teatro Festival Italia 2018 «ha avuto tournée» durante la stagione successiva, e che dunque il festival che lui dirige funge da seminatore teatrale, da principio o da fonte da cui deriva ciò che vediamo poi nel corso dell’anno. Uno dunque lo ascolta e pensa: “caspita, ma allora il NTFI…”. Tuttavia, questo 70% cui fa riferimento Cappuccio è composto genericamente dalle opere che per loro conto hanno avuto distribuzione (distribuzione in cui il NTFI c’entra poco, anzi nulla) o da quegli spettacoli di cui il NTFI è co-produttore (in alleanza con le grandi strutture nazionali) e che poi girano grazie alla consueta pratica degli scambi tra gli Stabili italiani. Cappuccio lo dichiara perché così può dimostrare che il Festival che dirige non è solo un eventificio episodico, un distributore di sostegni a progetti di corto respiro (o, in qualche caso e peggio ancora, di mance date ai teatranti locali) e tuttavia forse occorrerebbe – a fronte di questo “70% di tournée” dichiarato – ricordarsi che obbligo stabilito dallo statuto della Fondazione Campania dei Festival, tramite il NTFI, è quello di “favorire la circuitazione delle produzioni campane nei festival nazionali e internazionali” così da promuovere “la formazione di nuove generazioni di autori, produttori, attori e ridistributori teatrali”. Ebbene: quanti spettacoli campani il NTFI ha contribuito a far circuitare davvero, in Italia e all’estero, e quanti di questi spettacoli – per esempio – appartenevano alla sezione “Osservatorio”, cioè a quella così generosamente offerta alle nuove generazioni teatrali della città?
Quest’abilità retorico-numerica è la stessa che rende curiosa e divertente la pagina dedicata alle tournée (nuove o vecchie) del Teatro Nazionale di Napoli: vi si legge, per esempio, che costituisce tournée il viaggio fatto da Emone, regia di Raffaele Di Florio (coprodotto da Napoli, Torino, Roma) verso Roma e Torino (si tratta, invece, semplicemente delle repliche in sede da parte dei soggetti coproduttori); addirittura va considerata tournée anche la lunga (e immagino spossante) trasferta che ha compiuto Shakespeare & Shakespeare (il saggio di fine triennio degli allievi del Nazionale), trasferta che li ha portati a esibirsi dal San Ferdinando di Napoli al Palazzo Reale di Napoli: nel NTFI e in data unica, naturalmente. Si tratta, anche in questo caso, di un artificio retorico-numerico, grazie al quale De Fusco potrà continuare a rispondermi che «no, lei si sbaglia, non è vero che bado soprattutto a far girare i miei spettacoli: guardi quante messinscene, di quanti artisti differenti, invece facciamo andare in giro…».
Il fatto che mi venga in mente Luca De Fusco è inevitabile, giacché lui è il maestro di questa nuova formula retorico-numerica: la utilizza quasi più di quanto usi come protagonista Gaia Aprea nelle sue regie, sullo sfondo di schermi che ne ingigantiscano il volto. Così in ogni occasione ci tiene ad aggiornare il dato-fantastiliardo degli abbonati: l’ultimo è quello presentato nel CdA del 19 dicembre 2018, nel quale ha relazionato «in merito ai risultati della sua gestione dal 2011 al 2017». Gli abbonati, leggo, sono aumentati del 234% e le presenze del 72%. Peccato che, nel contempo, De Fusco si dimentichi di dire che in questi stessi anni è stato quasi azzerato lo sbigliettamento (per sentirglielo confessare bisogna andare indietro di undici mesi: «Noi sbigliettiamo pochissimo», «Il pieno lo facciamo quando vendiamo il cartellone», «Facciamo come EasyJet: prima compri l’abbonamento e meno paghi», affermò nell’incontro organizzato il 24 aprile 2018, a casa Santanelli, nell’ambito de Il Teatro cerca Casa).
È un peccato anche che chi dovrebbe controllare queste cifre, verificarne il fondamento e aiutare chi le ascolta a comprendere cosa davvero significhino (cioè noi giornalisti) si dimentichi di farlo, limitandosi – come ad esempio fa Fabrizio Coscia in un corsivo pubblicato da Il Mattino il 27 febbraio 2019 – a parlare di “strategia di marketing molto concorrenziale, per usare un eufemismo”, aggiungendo, tre righe dopo, che “sono i risultati che contano. E i risultati ci dicono che lo Stabile di Napoli funziona bene”. Eppure.
Eppure sarebbe bastato riflettere in termini di sistema complessivo per interrogarsi su cosa significhi per il resto della teatralità campana (a partire dalle sale medio-piccole, che di sbigliettamento e non di fondi pubblici sopravvivono) confrontarsi con un Nazionale che, per dirla con Coscia, adopera una strategia di marketing così “concorrenziale”; sarebbe bastato incrociare il dato-fantastiliardo così caro a De Fusco con altri due dati che si desumono studiando i bilanci del teatro ch’egli dirige: nel 2011 lo Stabile di Napoli dichiara a bilancio come “incassi da botteghino” 586.290 euro e come “incassi da produzioni e coproduzioni” 1.414.291 euro; nel 2017 (ultima annualità consultabile) gli “incassi da botteghino” sono di 715.397 euro e quelli derivanti da produzioni e coproduzioni sono di 1.477.616 euro. Ossia: a fronte di un bilancio «passato da quattro a nove-dieci milioni di euro» e a fronte del 72% di presenze in più e del 234% in più di abbonati, gli incassi complessivi da botteghino sono aumentati del 22% e quelli da produzioni/coproduzioni del 4,4%. Ecco, basterebbe già questo per farsi abbagliare meno da certe cifre o, almeno, per contestualizzarle e per renderle più credibili, davvero analizzabili.
Eppure – aggiungo infine, amaramente – in tutto questo noi dovremmo discutere di qualità dell’offerta, di eterogeneità lessicale e poetica, di aspirazione alla bellezza e di rischio artistico assunto in cambio del sostegno pubblico al teatro. E invece siamo costretti alla freddezza dei numeri, a usare la calcolatrice, a misurare o pesare la quantità. Quanto sarebbe bello, dover scrivere solo di metafore. (alessandro toppi)