Nei giorni scorsi la stampa cittadina ha ospitato l’intervento di presentazione del Preliminare di piano regolatore per Napoli (Laura Lieto, “La nostra riforma del piano regolatore”, la Repubblica, 3/1/2024), cui sono seguiti diversi interventi di commento più o meno critico o di sostegno all’iniziativa dell’amministrazione comunale. Sia nell’intervento della rappresentante della giunta Manfredi, sia nei commenti successivi, si nota l’assenza nel dibattito della consapevolezza della crisi climatica e ambientale e dei suoi riflessi alla scala locale.
Il Piano regolatore generale (comunemente noto come Prg) è stato concepito nella legislazione italiana come strumento dedicato a regolamentare il rapporto tra tendenze di sviluppo demografico di una città e modalità di uso del suolo, in un’ottica di garanzia delle condizioni di vivibilità per la popolazione residente. Ciò oggi vuol dire fare i conti con lo scenario della crisi climatica e ambientale e con i suoi effetti sulle aree urbane e metropolitane. Tuttavia, negli ultimi decenni, in particolare a partire dagli anni Novanta, in Italia la pratica urbanistica dominante ha messo in secondo piano la finalità regolamentare dei piani territoriali, subordinandola alle esigenze di crescita economica delle aree urbane, vale a dire della loro “attrattività”, come si suol dire. La cosiddetta “pianificazione strategica” sperimentata in molte città e aree metropolitane, in genere con risultati del tutto evanescenti come a Napoli sul finire degli anni Duemila, riflette il drastico cambio di mentalità avvenuto nella pianificazione territoriale in Italia, in particolar modo nelle scuole di urbanistica di ambito accademico: l’obiettivo non sarebbe più regolamentare l’uso del suolo, secondo una prospettiva unitaria di governo della città, bensì orientare i diversi spazi urbani verso “opportunità” di crescita economica differenziate da area ad area. In questa visione, la crescita economica è intesa in primo luogo come attrazione di investimenti esterni (in particolare, imprese estere tecnologiche) e di consumatori (turisti e altri visitatori) e nuovi residenti a medio-alto reddito. La concezione della pianificazione territoriale come “valorizzazione” di “opportunità” differenziate da area ad area come vedremo ispira la proposta di nuovo piano regolatore avanzata in questi giorni dall’amministrazione comunale napoletana.
Eppure, come indicano la comunità scientifica internazionale e le organizzazioni internazionali che operano nel contrasto al cambiamento climatico, le città e le rispettive amministrazioni comunali dovrebbero essere in prima fila nello sforzo globale di mitigazione della crisi climatica, destinata a tramutarsi in un vero e proprio collasso negli anni a venire. Come sottolinea l’UNEP, il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, le città sono coinvolte nello scenario della crisi climatica da tre punti di vista: perché i loro ambienti di vita sono colpiti direttamente dai suoi effetti (eventi estremi o anomali come cicloni, inondazioni, siccità, aumento delle temperature e bolle di calore); perché le città stesse contribuiscono in maniera decisiva alla produzione di emissioni “climalteranti” (ossido di carbonio e altre emissioni nocive); infine, perché le città detengono le capacità istituzionali per mettere in campo strategie volte perlomeno a mitigare la crisi e a individuare strategie innovative di adattamento. Sul piano della mitigazione, gli obiettivi sui quali oggi esiste ampio consenso prescrivono la riduzione entro il 2030 di almeno il cinquanta per cento delle emissioni, al fine di giungere entro il 2050 all’azzeramento delle emissioni.
Il preliminare di piano regolatore proposto dalla giunta napoletana accenna al tema della sostenibilità, ma lo relega in una posizione accessoria e subalterna rispetto all’obiettivo dell’attrattività economica. La sostenibilità urbana dovrebbe invece diventare la bussola della pianificazione territoriale, il principio guida capace di orientare le città su un percorso di giustizia sociale e ambientale. Sembra quasi superfluo sottolineare che Napoli e la sua area metropolitana evidenziano indicatori allarmanti sulla qualità dell’aria e in genere sui parametri essenziali di vivibilità: sono dati pubblicati regolarmente sui diversi mezzi di informazione ma che finiscono con l’essere ignorati ogni volta che le amministrazioni locali mettono in campo i propri indirizzi di pianificazione. È noto in particolare come a Napoli le aree urbane densamente abitate collocate a ridosso delle grandi infrastrutture di trasporto, il porto e l’aeroporto, soffrano di livelli record di inquinamento dell’aria che mettono a repentaglio la salute della popolazione. Ed è sotto gli occhi di tutti come le ondate di calore siano diventate eccezionalmente acute e frequenti in città e nella sua regione urbana in questi ultimi anni.
Alla crisi climatica e ambientale è strettamente intrecciata la crisi demografica che incombe sulla città. Secondo le stime disponibili, l’area metropolitana di Napoli perderà entro il 2100 circa 700 mila abitanti degli attuali tre milioni circa. È una cifra record che colloca la città agli ultimi posti della classifica sulla tenuta demografica delle aree urbane nel continente europeo. Preservare città densamente popolate è oggi una risposta sostenibile alla crisi climatica, perché un insediamento urbanisticamente compatto e demograficamente concentrato consente di minimizzare gli spostamenti delle persone e di ottimizzare i consumi energetici. Napoli è storicamente caratterizzata da una forte densità abitativa e da una struttura insediativa compatta. Il piano regolatore dovrebbe porsi l’obiettivo di contrastare la prospettiva di collasso demografico, preservandone la densità abitativa, in particolare a tutela dei ceti più deboli che ancora oggi popolano i quartieri della città storica. È il solo modo per allontanare lo spettro dell’estinzione progressiva della città come l’abbiamo conosciuta nel corso della storia.
Rendere sostenibile il territorio urbano e metropolitano vuole dire ripensare i modelli economici esistenti e lo sviluppo futuro delle aree che lo compongono. I quartieri che formano la città storica devono preservare le proprie caratteristiche distintive di densità abitativa e mescolanza sociale: fenomeni come l’iperturismo e la movida notturna concentrata in poche zone, il traffico veicolare generato dalla consegna a domicilio di merci acquistate sul web, sconvolgono il metabolismo della città e dunque devono essere contenuti e regolamentati; la mobilità sostenibile di superficie – negli anni scorsi trascurata a beneficio del grande affare ingegneristico-edilizio della metropolitana sotterranea, dal forte impatto ambientale – deve diventare una priorità assoluta; le grandi infrastrutture di trasporto – porto e aeroporto – devono essere tenute sotto controllo, la loro espansione deve essere fermata e i loro volumi di traffico drasticamente ridimensionati in un’ottica di tutela della salute della popolazione residente.
L’amministrazione locale non sembra però orientata in questa direzione. Sull’aeroporto, il sindaco Manfredi ha cercato di tranquillizzare i comitati civici che protestano per i livelli sempre più insostenibili di inquinamento atmosferico e acustico, promettendo di impegnarsi ad attirare “compagnie sostenibili”, anziché provvedere alla definizione certa di soglie sostenibili per i volumi di traffico aereo. Lo stesso indirizzo di incremento illimitato del traffico prevale per il porto commerciale e turistico. Sul problema della turistificazione del centro storico e sugli effetti di snaturamento che essa sta producendo sul tessuto sociale, l’amministrazione è altrettanto esplicita: l’overtourism da problema deve diventare un’opportunità di sviluppo di aree considerate oggi “sotto-utilizzate”, come la zona orientale della città. L’urbanista Carlo Gasparrini – scelto dall’amministrazione come coordinatore scientifico del nuovo piano regolatore – ha di recente ammesso alla stampa la non volontà di regolamentare il turismo di massa che sta sconvolgendo il mercato immobiliare e la geografia sociale dei quartieri del centro: “Dovremo fare consumo di suolo per colpa di questo ingiusto processo di turistificazione”, ha dichiarato alla stampa, individuando in Napoli Est la nuova frontiera di sviluppo residenziale della città, considerata l’inaccessibilità delle case nell’area del centro storico spremuta dal mercato selvaggio dei b&b e delle case-vacanza (Alessio Gemma, “Piano regolatore, ora si cambia”, la Repubblica, 6/12/2023).
Parlare oggi di consumo di suolo è quanto meno problematico. Come rileva ancora l’UNEP, il settore delle costruzioni incide per circa il trentasette per cento sulle emissioni climalteranti da cui si origina la crisi climatica. E poi doveroso chiedersi: sviluppo residenziale per chi? Insieme al destino della città storica, la riconversione delle aree ex industriali – quella occidentale di Bagnoli e quella orientale di Ponticelli, Barra, San Giovanni a Teduccio – è la grande posta in palio dei progetti presenti e futuri di trasformazione urbana. Sulla riconversione della zona orientale – una vasta area nel tempo martoriata da insediamenti “produttivi” gravemente inquinanti – sembrano appuntarsi i maggiori interessi. In uno scenario di crisi climatica globale e di sofferenza ambientale sul piano locale, sarebbe ragionevole attendersi che tali aree fossero destinatarie – una volta eseguite le bonifiche in corso o programmate – di una vasta opera di rimboschimento e rinaturalizzazione, diventando i grandi polmoni verdi della città. Invece, di questo non vi è traccia negli indirizzi dell’amministrazione e dei suoi consiglieri. Per l’area orientale si propone un indirizzo che si potrebbe dire “milanese”: messe da parte le progettualità di sviluppo manifatturiero e di riconversione in area di specializzazione logistica, le si assegna una vocazione di “città dell’innovazione e dello sviluppo”, puntando su “forme collaborative di sperimentazione tecnologica e produttiva, basate sull’alleanza tra ricerca e impresa”, capaci di generalizzare il presunto “modello della Apple Academy di San Giovanni a Teduccio” (Michelangelo Russo, “Innovazione e sviluppo a Napoli Est”, la Repubblica, 10/1/2024).
Si sente qui forte l’eco del modello milanese dell’innovazione urbana, incentrato sul finanziamento di incubatori di imprese start-up e su progetti pubblico-privati di smart city, sulla moltiplicazione di distretti tecnologici e su esperimenti variamente creativi di “economia circolare”. Al di là dei concreti effetti di emancipazione economica dei territori e delle comunità che vi risiedono, nella pratica urbanistica corrente questi processi hanno anzitutto l’obiettivo di attirare dall’esterno “capitale umano” qualificato, vale a dire nuove professioni (dagli imprenditori start-up agli sviluppatori di software e altre tecnologie digitali) in grado di rendere “attraente” il mercato immobiliare e dunque giustificare operazioni di sviluppo residenziale come quelle che a Napoli si annunciano nell’area orientale. E infatti oggi Milano, che negli anni scorsi ha puntato tutto sul modello immobiliarista di “rigenerazione urbana”, è al centro della crisi abitativa che affligge le nostre città, come evidenziato dalle mobilitazioni studentesche della primavera scorsa che hanno avuto origine proprio nelle università milanesi. Nel contesto napoletano, è poi evidente l’impatto territoriale molto limitato, se non inesistente, della Apple Academy, che è rimasta una piccola “cattedrale nel deserto”, a dispetto del trionfalismo che le è stato tributato dalle varie amministrazioni locali e regionali e dai grandi organi di informazione (anche internazionali) fin dall’annuncio del suo insediamento nel 2016. Quella che fin dall’origine è apparsa come un’operazione di marketing territoriale, se non di vera e propria propaganda mass-mediatica, dovrebbe diventare secondo la visione che oggi si propone per il nuovo piano regolatore la chiave di volta per lo sviluppo di un’area vasta e complessa come Napoli Est e della “attrattività” della città nel suo insieme.
Mentre il nuovo piano regolatore e i suoi proponenti inseguono fantasie di “innovazione” e “attrattività” variamente declinate a seconda delle “opportunità” che ogni area urbana offre, si resta dunque in attesa di conoscere quale sia la strategia dell’amministrazione comunale per contrastare, o almeno mitigare, l’emergenza climatica globale e la crisi ambientale che gravano sulle vite quotidiane e sul futuro delle persone che abitano a Napoli e nella sua area metropolitana. Come ci ricordano ogni giorno i movimenti per la giustizia climatica e ambientale, intervenire sulla crisi climatica e ambientale è urgente e non più rinviabile e anche i governi locali sono chiamati a fare la propria parte. (ugo rossi)