Da anni, per noi, il festival del cinema è come il Natale, l’attesa una vigilia. Poi, quando le luci si spengono e le poltroncine assorbono il freddo attaccato ai giubbotti, abbiamo la sensazione di vivere in una bolla. Il pass d’ingresso, una foto sospesa sotto un nastro colorato, è un oggetto d’abbigliamento. Intorno giornalisti ed esperti di festival internazionali barattano informazioni sui film, s’alzano commenti intelligenti, applausi e brusii; e noi ci chiediamo dove sia il mondo, se non sia stato divorato dal buio delle sale o disciolto dall’acido delle immagini proiettate. Forse è una condizione estesa al resto dell’anno, perché anche noi, in città, ci aggiriamo fra sfondi di quartieri dove vie e abitanti scorrono davanti agli occhi come simulacri. I luoghi che crediamo di abitare sono sgualciti per eccesso di sguardi, lisi dalle rappresentazioni. Allora, poiché non abbiamo la forza di raccontare la vita, smontiamo le parole già morte forgiate dalle istituzioni e dai giornali.
Al cinema abbiamo visto Trevico-Torino. Viaggio nel Fiat-Nam di Ettore Scola e abbiamo detto: «Questo è straordinario». Il film è del 1973 e sullo schermo scorre la versione restaurata dalla cineteca di Bologna e dal museo del cinema di Torino. Fortunato, un immigrato irpino, arriva in città per lavorare, in tasca tiene una lettera dalla Fiat e in mano una valigia, cerca un alloggio, dorme in stazione, si nutre alla mensa dei poveri, confabula e s’organizza fra i capannelli di paesani che si riuniscono la domenica a piazza della Repubblica, finisce in un dormitorio, conosce una studentessa impegnata nelle lotte politiche, forse s’innamora, lavora in fabbrica e interrompe la catena di montaggio, viene spedito alle ferriere lungo la Dora, cade e si rialza a stento. La macchina da presa scopre un posizionamento vicino, interno al mondo degli operai e degli immigrati; mostra il malessere della città industriale e la distanza fra i militanti dell’università e i lavoratori. Noi, goffi come gli studenti carichi di volantini fuori da Mirafiori, ci chiediamo: «Come ha fatto Scola?». Ho immaginato un’altra storia del cinema: non una storia delle tendenze, degli autori, dei temi e delle poetiche, ma una storia dello sguardo e delle sue modalità concrete. Questa storia indaga il rapporto fra il mondo e la macchina da presa: è una storia della distanza fra le immagini e le cose, ma anche delle strategie che consentono di entrare dentro, avvicinarsi ai contesti.
Un pomeriggio ho visto un film che va alla ricerca di una realtà esterna alla nostra, trascendente. Il primo moto dell’immobile racconta la vita artistica di Giacinto Scelsi, compositore emarginato e quasi dimenticato. L’autore del film, nipote del musicista, recupera alcuni nastri magnetici dove Scelsi ha registrato le sue memorie. Qui Scelsi sostiene di non essere autore della musica, ma mediatore: le note gli sono dettate dai deva della tradizione indù. Noi ascoltiamo la sua voce, le testimonianze dei suoi collaboratori, esploriamo i paesaggi della sua vita, le stanze della dimora e, forse, incontriamo le creature in cui si è reincarnato. Un testimone sostiene che Scelsi chiedesse a cantanti e ai musicisti di far risuonare la stessa nota per dieci volte; questa tecnica esplorava la gamma sonora di una sola nota per discendere al suono originario, al primo suono dell’universo. La musica di Scelsi non è una composizione di legami, ma una ripetizione di note in cerca dell’origine: l’opera si muove in verticale (esplora le possibilità di un suono) e non in orizzontale (trascura i legami sintattici fra gli elementi). Alla fine ascoltiamo un’orchestra suonare e intuiamo che il film e la musica sono procedure di magia nera: discendono giù nell’oscuro fondo per ritrovare gli archetipi essenziali in un aldilà lontanissimo.
Ho compreso meglio la differenza fra un’opera che va fuori dal mondo e una che aderisce alla materia durante la proiezione del film di Marco Proserpio sulla street art. The man who stole Banksy racconta le peripezie del disegno di Banksy dove un soldato israeliano controlla la carta di identità di un asino. L’opera è stata staccata da un muro palestinese, caricata su un naviglio e rivenduta a un’asta internazionale. La storia dell’oggetto è il pretesto per mostrare la furbizia spettacolare di artisti famosi, la scaltrezza di alcuni abitanti e di un piccolo imprenditore di Betlemme, la vitalità espressiva di chi abita un luogo, il cinismo di mediatori e rivenditori e, soprattutto, la capacità del sistema vigente di metabolizzare e sussumere ogni oggetto attraverso l’attribuzione di un valore economico. Come fa il mercato a valorizzare un’opera? L’opera d’arte deve essere esiliata dal suo contesto circostante, ovvero separata dai legami sintattici che intrattiene con l’ambiente sociale; così diventa un segno in sé, incorniciato e cristallizzato come un simbolo. La trascendenza sorge quando i segni abbandonano l’immanenza dei nessi materiali ed escono fuori in uno spazio di aldilà.
In Atto di fede la macchina da presa viaggia insieme a una banda di musicanti itineranti, poi segue le stazioni di una Madonna che migra di casa in casa, infine s’attacca agli spostamenti di un madonnaro vagante che dipinge volti sacri sul selciato durante le feste di paese. Atto di fede è un film di accadimenti e di transizioni: nulla esce fuori, non ci sono teorie o idee sul mondo. Questo è possibile perché il viaggio, la processione e la camminata sono forme della sintassi, ovvero sono figure dove gli elementi si legano fra loro e procedono continui sullo stesso piano, senza uscire fuori dalla catena. “I film si stringono alla superficie delle cose. Meno si focalizzano sulla vita interiore, l’ideologia, le premure spirituali, più appaiono cinematografici”, scriveva Kracauer (Theory of film). Sono in cerca di film orizzontali dove il montaggio domina sui simboli. La predilezione per il montaggio è la via a un cinema materiale, concreto, tutto interno al mondo che appare come concatenamento di eventi che non ti aspetti.
Una tecnica interessante – interessante perché si svela da sé – è il montaggio per giustapposizione di parti. A Porta Capuana ragazzini giocano a calcio e uno di loro supera l’avversario con un tunnel, un suonatore muove le dita sulle corde, un fruttivendolo ondeggia le spalle al ritmo d’una musica, una donna muove le braccia per riscaldare i muscoli e la voce del venditore è un richiamo. Porta Capuana di Marcello Sannino mi sembra un film di frammenti aggregati nello spazio simultaneo, come un collage. Lo spettatore scruta un archivio di gesti ritagliati e incollati l’uno a fianco dell’altro dove non esiste una narrazione con un senso unitario e una fine a cui tendere. Il tunnel del ragazzino è un bella giocata, ma il montaggio la stacca dal suo obiettivo (arrivare alla porta) e la mostra come gesto puro fra altri gesti senza finalità. Così nasce una nuova configurazione di frammenti. Ho pensato che Porta Capuana m’insegna a uscire fuori all’aria aperta per vedere i gesti puri, ovvero le mosse senza fine, senza significati e senza teorie che li sostengono.
Decostruire le parole del potere e dei suoi funzionari, ora, non è più un’aporia: i frammenti smontati possono aggregarsi in nuovi assembramenti liberi dalle pretese dei significati ultimi e originari. L’ultimo giorno ho visto I Do Not Care If We Go Down in History as Barbarians, film di Radu Jude sul passato oscuro della nazione romena. Nella Romania contemporanea una regista teatrale prepara uno spettacolo sulle responsabilità del governo romeno durante l’espansione nazista. La regista, nonostante l’ostilità e le pressioni della produzione e dell’amministrazione di Bucarest, vuole mettere in scena il massacro degli ebrei di Odessa organizzato dall’esercito regolare. Assistiamo alle prove fra residuati di guerra, ascoltiamo le discussioni accalorate contro gli uomini di potere, conosciamo i dubbi e le domande dei protagonisti riguardo alla verità e all’oscenità della storia. Il film riflette il funzionamento del macchinario della rappresentazione e dunque testimonia di come ogni affermazione sia esito di una costruzione. Eppure è proprio attraverso lo smontaggio della finzione che intuiamo l’emergere dell’orrore passato. La verità, allora, non è un’affermazione esterna al linguaggio, ma un’inesausta tensione che vibra fra le connessioni delle componenti. Sullo schermo appare il litigio fra la protagonista e un attore che desidera un’opera realistica: «Rievocazione significa realismo estremo!»; «Straordinario! Questa non è una rievocazione militare. Sto facendo uno spettacolo usando la rievocazione. In modo sovversivo! E non farmi ridere. Wow, realismo estremo! La guerra è morte, e non ti ho visto morire. Fammi finire. Cosa vuoi rievocare? Armi, uniformi? Pensi che questo sia il realismo?». Alla fine del film gli attori recitano in piazza e lo spettacolo stimola un effetto inatteso: il pubblico applaude gli invasori nazisti e i carnefici romeni. La conclusione non chiude il film, ma investe le scene precedenti di nuova energia perché il tempo della pellicola, come il nostro tempo, è aperto e mai definitivo. Nella catena dei pensieri il suono degli applausi mi ricorda che “neanche i morti saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. Ed egli non ha smesso di vincere”. (francesco migliaccio)
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