È stato facile, a posteriori, dire che Ninuccio fosse una capa gloriosa. Suo fratello Vittorio, però, dice che in famiglia lo avevano capito prestissimo. Aveva dodici anni, quando gironzolando per il porto di Pozzuoli decise di andare incontro all’America. Le banchine brulicavano di yankees, la guerra era finita da poco e le città erano invase da militari che andavano in giro a donne, si ingozzavano di whisky e si facevano fare i pacchi. Ninuccio li guardava affascinato dalla loro parlata, lo affascinavano la camminata dinoccolata, l’allegria un po’ stolida dei giovani campagnoli del Tennesse. Vedeva materializzarsi quello spirito americano che lo aveva rapito grazie ai film di cow-boys. Proprio come il Sordi “Americano a Roma” di Monicelli. Partì un giorno imprecisato senza avvertire i familiari che lo diedero per disperso o annegato in mare. Sono avvolte dal mistero, le sue avventure sul cargo americano in quelle settimane in cui sparì da Pozzuoli per tornarvi smagrito ma soddisfatto. «Mi piaceva la vita di mare, un giorno conobbi dei marinai che se la facevano al porto e sono partito». Così, semplice e senza fronzoli, come è sparito così è tornato, arricchito di un inglese da Gorilla K2: «Hawangai, that’s Americawai, Awentu America».
Non sono chiare le conseguenze di questa fuga in mare e sul resto della vita di Ninuccio. Quello che è certo è che il tipo è venuto su, come dire, abbastanza originale. Personaggio senza premeditazione, che beve solo Cedrata Guizzella, a suo parere bibita con oscuri poteri guaritori, che ha imbarazzato per anni i macellai dello stivale chiedendo sempre il pezzo che non ti aspetti, gallina faraona o piccione, bilanciati in colesterolo dalla incontenibile passione per salsicce, trippa, soffritto e quanto di meno light sia presente nell’arco dei cibi commestibili. Senza automobile fino ai cinquanta, dopo essersi trasferito in Toscana, ormai vedovo, non era raro trovarselo fuori casa, a Napoli, di domenica mattina in Lambretta, pronto per il pranzo dai parenti. Seicento chilometri col culo sul sellino con la scioltezza di una Napoli–Portici. La prima auto arriva sul finire degli anni Ottanta. Ora, tu non hai mai guidato e decidi finalmente di cominciare, devi passare dalle due alle quattro ruote quindi scegli una vettura comoda, con cui calcolare agevolmente gli spazi nelle manovre e parcheggiare in maniera facile. Infatti comprò una Land Rover. Grande, scomoda, consumi folli. «Però lo stereo è bello, eh?», si riusciva talvolta a leggere il labiale di questi commenti soddisfatti, mentre le casse vomitavano fuori i classici del Mambo a volumi da balera.
Alcuni esegeti sostengono persino che in realtà sia stato proprio lo stereo, l’elemento centrale, cui faceva da contorno il fuoristrada. Perry Como e Natalino Otto, Xavier Cugat e Claudio Villa. Crooners italici e americani, con la frizzante spruzzata del mambo sono stati il suo pantheon musicale e quei ritmi hanno formato, in un’alchimia inedita, l’immaginario sbilenco inseguendo il quale ha collezionato stramberie ed impianti stereo. C’era un Pioneer di tutto rispetto anche nella Clio 16 valvole che prese il posto della jeep, e si schiantò a gran velocità contro un palo della luce abbattendolo come un alberello. I pompieri trovarono il corpo di Ninuccio schiacciato delle lamiere, pensandolo morto fino a quando lo sentirono bestemmiare tra i suoni ammalianti di Perez Prado. Non si perse d’animo, il cow boy flegreo, continuando a imperversare su e giù per l’Italia dentro carrozzerie sempre lucide di lavaggio, il cruscotto intasato di ninnoli da camionista tzigano, avvolto da musica a volumi impossibili, e una incrollabile tendenza a minimizzare le distanze.
Domenica a pranzo a Napoli con partenza di mattina, nel pomeriggio un caffè a casa di sua nipote a Mantova. Una volta sparì per due settimane senza lasciare tracce, gettando la famiglia nello sconforto. Al ritorno risposta semplice, come sempre: «Parlavamo con un amico di fare un viaggio e abbiamo pensato di andarci a fare due bagni in Thailandia». E chest’è. Era andato un attimo a Pattaya. Dev’essere stata questa voglia irrefrenabile di spostarsi, la vera fiamma che ha scaldato la sua vita, un friccichio continuo sotto i piedi. Fare quello che ti dice la testa, senza troppe riflessioni con una linea diretta fra desiderio e azione. Era così, Ninuccio, aveva una leggerezza figlia di un atteggiamento ostinatamente spensierato che lo muoveva tra le trasformazioni della vita. Con questa spensieratezza ha attraversato gli anni della fame di cui serbava memorie eccezionali come una foto con la giovane Maria Scicolone, anni prima che diventasse SofiaLorèn, smunta e smagrita e con due lunghe trecce. O la vita di fabbrica, quella SOFER che si è mangiata i polmoni dei puteolani per anni. Lui era tranquillo perché non stava nel reparto pericoloso, infatti ci rimise la vescica, ricostruitagli con un pezzo d’intestino. Cose così, che se le racconta uno qualsiasi non può che tingere la narrazione delle tinte fosche di un dramma mentre lui le prendeva come piccoli fastidi. Increspature sulla superficie liscia della sua spensieratezza incosciente, forse l’unico antidoto veramente efficace al ciclo delle vite ancorate alle scadenze, divorate dall’ansia e prigioniere delle farmacie.
Viene da desiderarla, quell’incoscienza, che forse è solo un modo elegante per passeggiare sopra i cocci della vita continuando a essere se stessi. Col cappellone da mandriano e lo stereo a palla nel fuoristrada. Lo sguardo sempre rivolto alle cose che ti stanno davvero a cuore, anche nei momenti difficili.
Era un marzo caldo e piacevole, quando le sue coronarie decisero di chiudersi dopo una vita di grassi e fritti misti. Uscendo dalla sala operatoria, dove gli avevano spurgato mezzo circolo arterioso il primo sguardo fu per suo nipote, al quale in un momento denso di emozione, la bocca secca e la difficoltà a parlare fra i tubi dell’ossigeno, raccomandò mormorando come in una scena madre: «‘E sasicce. Nel portabagagli stanno ‘e sasicce. Toglile e mettile nel frigorifero che si fanno brutte».
Camminare in bilico su una fune da circo come fosse una passeggiata a via Napoli. Tanto se devi cadere cadi, che te ne preoccupi a fare? Così ha attraversato anche le trincee più difficili, dopo i bypass, le due ostruzioni delle arterie femorali, svariati tumori cutanei, il morbo di Parkinson. L’unica malattia che lo abbia veramente piegato, levandogli la possibilità di prendere e partire per seguire le voglie anche più estemporanee e non per forza i grandi desideri, seguendo l’istinto come un segugio. Tradizione vuole che il riportare eventi sia mestiere preciso e rigoroso e che lo storico, indipendentemente dal proprio valore, resti “straniero ai suoi scritti”. Stavolta ci concediamo uno strappo, raccontando un pezzo della nostra variegata storia familiare. Ninuccio era mio nonno, e se n’è andato da poco senza avvertire nessuno, come in uno dei suoi memorabili colpi di testa. Il Parkinson mi tiene chiuso in casa? E io me ne vado all’altro mondo a vedere che ci sta, tanto le gambe là non mi servono e vafangulo pure a te. (antonio bove)