“…già, si dovrebbe dire qualcosa del lutto,
un giorno o l’altro –
si dovrebbe dire qualcosa del nero –
d’o nniro ‘e seccia –
ca ccà scorre a semmènza –
presque un petit ruisseau –
dentro gli animi e per le scalinatelle…”
Enzo Moscato, Partitura
C’è un zona tra Pianura e Quarto che per trent’anni è stata la più grande pattumiera d’Italia, con ben tre discariche differenti in cui si è sversato spesso in modo autorizzato non solo rifiuto urbano, ma industriale, chimico, tossico, e forse anche radioattivo.
Questo territorio, località Pisani, appare ora, se ci si passa in macchina o in Cumana (a piedi non si può perché per chilometri non ci sono marciapiedi né fogne né illuminazione pubblica), come un’immensa distesa di erba, ma è erba cattiva, cresciuta sopra quintali di immondizia sotterrata senza nemmeno i teloni, vegetazione innaffiata dagli sfiati dei gas che ancora escono e dal percolato fuoriuscito e riassorbito dal terreno.
È questo il paesaggio che separa il fitto blocco edilizio abusivo di Pianura e quello in crescita della zona da Quarto in poi. Nell’enorme quartiere di Pianura, a differenza dei quartieri popolari centrali, alla ridotta dimensione privata non corrisponde una dimensione pubblica più ampia. Per strada non si vede quasi nessuno, solo i treni della Cumana affollati oltre il limite e code di macchine che escono dallo stradone principale dalle 7 e rientrano nel traffico dalle 18. Dopo le 20 un silenzio incredibile.
Credo sia più o meno questo quello che si intende per dormitorio. Non esistono università, scuole superiori, teatri, cinema, piazze, strade con negozi; poche le associazioni, tristi le sedi di partito con età media sopra i sessanta, però sempre più centri scommesse per versare il sangue che resta, ambigue sale biliardo senza insegna, e tanti tanti Caf per costruire il consenso elettorale attraverso l’assistenza ai cittadini nell’inferno della burocrazia. E poi ci sono supermercati, le chiese e le case. Migliaia di case. Costruite senza criterio, a palazzoni dai cinque agli otto piani.
Un quartiere che negli anni ha perso anche la propria “rispettabilità” in materia di malavita, con la fine progressiva del processo edilizio abusivo che ha riempito ormai quasi ogni centimetro possibile, la fine degli sversamenti illegali dei rifiuti e lo spostamento in altre zone del grosso della vendita della droga.
E allora è necessario rivedere la narrazione di questa zona, di una realtà non più interpretabile con le letture di quindici anni fa. Oltre a denunciare la situazione sociale ancora disastrosa del quartiere, non solo bisognerebbe ricordare i sacrifici delle persone che ci abitano, ma si dovrebbe analizzare la sua nuova composizione, i figli di quelle giovani coppie che si trasferirono qui tra gli anni Ottanta e i Novanta e che oggi, ventenni, si ritrovano ad affrontare i nuovi lavori precari; e i tanti, sempre di più, che si spostano per studio fuori dal quartiere lasciandolo vuoto, in ricerca di riscatto da un’altra parte.
In questo scenario in cui non esiste comunità e incontrarsi risulta quasi impossibile, per quasi tre mesi (a cavallo tra la fine del 2007 e l’inizio del 2008), in occasione delle proteste contro l’ipotesi di riapertura della megadiscarica di Pianura, centinaia di persone della zona, di ogni età e formazione, hanno condiviso spazi, attese e lotte (dai blocchi stradali alle petizioni, dalle messe in piazza alle assemblee, ai cortei), socializzando le ansie e i dolori per le condizioni della loro salute e dell’ambiente in cui vivevano, che rischiava di essere compromesso definitivamente per una scellerata decisione istituzionale.
Questa parte di popolazione ha reagito alla decennale e crescente umiliazione, attraversando momenti pubblici e spazi spesso creati in emergenza per ripararsi dal freddo umido di quel lunghissimo inverno, riprendendosi il quartiere mentre i blocchi stradali creavano un insolito viavai pedonale, quasi a restituire una dimensione umana proprio nel momento peggiore. In quelle giornate il quartiere era invaso da chilometri di spazzatura marcia non raccolta da settimane, che venne poi sparpagliata sulla strada per farne barricate insieme ai pullman ribaltati e incendiati, contro l’avanzata dell’esercito di forze dell’ordine (perfino la forestale e i falchi, oltre a finanza, polizia e carabinieri) chiamato per aprire la discarica.
A scriverlo oggi sembra un’esagerazione barbarica, un’esasperazione vittimistica, ma chi è passato di lì in quei giorni se lo ricorderà bene (sì, perché questa storia è stata raccontata così male e per così poco tempo che oggi esiste soltanto per chi l’ha vissuta direttamente). L’associazione “Lello Mele”, una di quelle da sempre impegnate prima per la chiusura e poi per la bonifica della discarica di Pisani-Pianura, porta il nome di un ragazzo della zona, morto giovanissimo a causa di un tumore.
Nella sede dell’associazione e al presidio gazebo/container, durante le assemblee di quei giorni, le nostre storie di ragazzini si intrecciarono con quelle sconvolgenti delle persone che avevano perso i propri cari a causa di terribili malattie, e che partecipavano alla lotta comune senza l’atteggiamento pietistico dei servizi televisivi.
Un ragazzo forse appena trentenne, dopo avermi raccontato di giorni trascorsi inutilmente, tra vicissitudini e dolori, all’ospedale Pascale di Napoli e in quelli specializzati del nord Italia, prima per la moglie e poi per la figlia, mi disse di voler dare una mano in ogni modo per evitare che questo dramma potesse ripetersi e diffondersi ancora.
Poiché questi drammi si concentrano maggiormente in alcune zone ma si diffondono a macchia di leopardo e in tempi diversi, è difficile avere un quadro complessivo della situazione, che solo i momenti di condivisione collettiva riescono a restituire. Non si tratta soltanto dell’esigenza di creare un rapporto sanitario-statistico, necessario a partire da un registro tumori che guarda caso manca proprio nelle zone del casertano e in quelle più inquinate di Napoli; non si tratta cioè soltanto di consegnare la propria cartella clinica per uno studio ministeriale o di parte, ma di una pratica diretta di partecipazione e di lotta che lega le storie individuali a quella di una popolazione.
Così con l’aiuto di associazioni e comitati, e grazie ai pochi medici di famiglia, oncologi e tossicologi che coraggiosamente si schierarono, si raccolsero cartelle cliniche tramite appelli pubblici, per mappare e testimoniare la situazione che le persone stavano vivendo da anni, e grazie a questi appuntamenti si conobbero le tantissime famiglie con casi di tumori o altre patologie gravi più o meno riconducibili all’inquinamento.
Questa prima forma di socializzazione del dolore restituì a tutti il quadro della situazione: per anni quella che si può definire una vera e propria epidemia era stata vissuta soltanto come una sofferenza privata, come un’inspiegabile e improvviso scandalo che è la perdita di una persona cara. Durante quei giorni invece fu tutto più chiaro, al di là del nesso causale che la scienza doveva ancora trovare. Il rapporto tra la qualità della vita e dell’ambiente circostante e le malattie in percentuale così diffuse nella zona si imputarono ai trent’anni di discariche, ai roghi dell’immondizia non raccolta, ai campi agricoli ammalati e alle falde acquifere contaminate. Sebbene in tanti lo avessero sempre pensato, tutto questo divenne presa di posizione collettiva, idea comune da portare avanti pubblicamente, affermazione del diritto di parola sul destino delle proprie vite.
Questa condivisione spontanea, anche se aggregazione momentanea e non duratura, ha contribuito notevolmente alla battaglia per la salute e l’ambiente coinvolgendo fasce di popolazione solitamente restìe a partecipare. Allora forse per ricostruire la storia di questi anni napoletani di immondizia e di vergogna, bisognerebbe tenere conto di un insieme enorme di sofferenze private, un muro di dignità e dolore che circonda centinaia di case e di famiglie, e che rimane nascosto se non per gli indecenti bisogni di qualche sciacallo televisivo pronto a lucrare sul problema (la lacrima in primo piano, programmi a caso: Annozero, Mtv…) o per chi ne ha bisogno come critica nei periodi elettorali.
E sì che allora si dovrebbe dire qualcosa del lutto un giorno o l’altro – come scriveva Enzo Moscato riferendosi nel suo Partitura alla peste che nel 1650 fece morire più della metà dei napoletani (quella sì epidemia per forza di cose pubblica, problema di tutti, ammasso di corpi ammucchiato successivamente fuori dalle mura al cimitero delle Fontanelle e riportato ancora all’attenzione di tutti con un’alluvione che scendendo giù da Capodimonte si trascinò i morti tra la fanghiglia come un fiume di guerra terrorizzando nuovamente i napoletani e riportando a galla il dramma appena passato).
Mi ha sempre colpito che i napoletani per parlare delle difficoltà della vita (dalla salute al lavoro) facciano spesso riferimento a termini come “combattere” o “guerra”. Qui ogni cosa sembra assumere una dimensione più radicale, e trascrivo così le parole di un padre intervistato in televisione sulla vicenda del rapporto salute-rifiuti: “Se facessimo un passaparola di tre-quattro giorni per raccogliere tutte le persone che hanno avuto in famiglia un caso di tumore ci vorrebbe lo stadio San Paolo solo per Pianura, io sono tre anni che combatto con mia figlia, ma ce ne sta una cifra infinita…”. Combattere insieme con una figlia, una moglie, significa seguirne le cure, convincersi della loro utilità, girare specialisti di mezza Italia, rompere gli equilibri familiari, fare “le nottate”, affrontando una malattia con lo stesso spirito di una guerra, che però si combatte in isolamento.
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Nell’arco di quattro mesi anche la vicenda della discarica di Pianura si concluse. Alla fine si riuscì a impedire la sua riapertura grazie a un’incredibile resistenza popolare (non priva di contraddizioni, ma “le battaglie pulite stanno solo nella testa di chi sta sempre col culo parato”, dicevano anni fa i 99 Posse) e a un traballante governo di centrosinistra; ma fu chiaro quasi subito, dopo un’ingenua euforia iniziale, che il territorio non sarebbe mai stato bonificato e che “il guaio che sta sotto”, “la bomba a orologeria”, come dicono qui, avrebbe continuato a incidere silenziosamente sulla vita di chi abita o attraversa questo territorio malato.
Ora che sono passati più di cinque anni nel quartiere è svanito il senso di condivisione di quei giorni, e mentre scoppiavano le vicende per certi tratti simili ad Acerra, a Chiaiano, ed emergevano le molteplici resistenze delle martoriate province campane fino al dramma della “terra dei fuochi”, qui scomparivano le assemblee e i comitati di quartiere, unici spazi in cui era stato possibile un incontro tra le persone, e il dolore tornava a fare parte di una storia fatta di guerre personali. Nel frattempo la spazzatura tornava per strada e la notte le fiamme dei roghi si facevano sempre più alte, i partiti tiravano la testa fuori dalla sabbia dove si erano nascosti e ritornavano nella piazza del municipio a svolgere il loro ruolo di assistenzialismo spicciolo, mentre quel fortissimo grido di cambiamento che era stato raccolto dal nuovo sindaco sembra oggi essersi già perso, soffocato in una realtà che qui è rimasta totalmente immutata.
In tanti, a Napoli, dopo anni di lotte avevano sperato che con il ricambio di giunta regionale e comunale la situazione sarebbe cambiata, e forte di questa fiducia il sindaco ha sapientemente venduto fumo per quasi un anno, fino a che la distanza fra il racconto e la realtà si è fatta troppo grande, e il meccanismo ha cominciato a cedere facendo calare il consenso.
L’aria che ora si respira qui è di sfiducia, e alimenta la volontà di fuga; si è stanchi di attendere, ma forse si è stanchi anche di lottare per problemi annosi, e non se ne vuole più sentir parlare. L’esperienza negativa di questa amministrazione, e i “chiari di luna” che si intravedono nel prossimo governo, sembrano dare una botta definitiva a quella speranza di cambiamento che, nel bene o nel male, era emersa e si era espressa in tanti modi differenti negli ultimi anni. Ed ecco che nello stesso giorno in cui un ministro mai eletto arriva in provincia di Napoli a presentare un vergognoso rapporto di incidenza tra malattie e territorio parlando di obesità e povertà, tralasciando l’argomento ambiente e rifiuti, dall’altra parte della città un padre di famiglia si toglie la vita dopo anni di sofferenza nella propria guerra personale.
Lo sforzo di vita di chi soffre è stato e sarà parte della lotta. Chissà che non lo sia anche cominciare a raccontarlo. (fabio germoglio)