Fotoreportage di cyop&kaf / testo di luca rossomando
(testo pubblicato su Repubblica Napoli, 1 febbraio 2013)
A metà gennaio in molti quartieri della città si consuma ancora il rito del cippo di Sant’Antonio. Passato il capodanno i ragazzini si mettono in cerca di legna da bruciare, spingendosi anche molto lontano dal proprio quartiere. C’è chi raccoglie abeti natalizi, recuperando quelli casalinghi oppure quelli usati per decorare i negozi durante le feste; ma c’è anche chi si accontenta del compensato dei mobili economici che non di rado si ritrova ai piedi dei cassonetti sottoforma di pannelli sfasciati e inutilizzabili. Ogni banda ammassa la legna in qualche nascondiglio – al chiuso di un edificio abbandonato o all’aperto in qualche slargo tra i vicoli – per proteggerla dalle incursioni degli altri gruppi provenienti dai quartieri vicini. L’attesa del giorno del falò, il 17 gennaio, si consuma in queste frenetiche ricerche e poi nelle schermaglie, a volte reali, spesso immaginarie, per difendere il proprio tesoro dagli assalti dei “nemici”, che all’occorrenza possono diventare alleati con cui concludere scambi (“vi diamo cinque alberi piccoli se voi ci date il più grande che avete”) o stringere accordi di protezione reciproca.
Tutto si svolge in strada, quasi ventiquattro su ventiquattro: la mattina a volte si marina la scuola e quando si avvicina il 17 cominciano le “nottate” per fare la guardia al nascondiglio. Ogni banda è formata da venti o trenta bambini, rigorosamente maschi, quasi tutti intorno ai dieci anni, con qualche tredicenne o quattordicenne che dirige le operazioni. La mattina dell’ultimo giorno entrano in scena quelli un po’ più grandi, che inchiodano le tavole di ponte sottratte ai cantieri edili e costruiscono la base per contenere la legna, in modo che il fuoco possa slanciarsi verso l’alto ed essere visibile anche da molto lontano.
A osservarla da fuori, la pratica del “cippo di Sant’Antonio” si oppone a tutte le regole codificate del vivere civile e non di rado sfocia in atti di vero e proprio teppismo. Per raggiungere il loro obiettivo le bande sono disposte a scavalcare chiunque rappresenti per loro un ostacolo, dai vicini del quartiere che si lamentano degli schiamazzi fino a tarda ora o della pericolosità di un fuoco acceso in mezzo ai palazzi, fino ai vigili urbani che minacciano di sequestrare tutto per ragioni di ordine pubblico. A guardare più da vicino però si scopre l’esistenza di regole interne, di codici di comportamento, di consuetudini che si tramandano da una generazione all’altra. Impressiona soprattutto lo spirito con il quale i bambini si calano nell’impresa. Si tratta di solito di quegli stessi che a scuola appaiono svuotati, pigri, demotivati, oppure, all’opposto, incontenibili e sempre irrequieti. Nei giorni del cippo li ritrovi invece appassionati e assorti nei compiti più disparati, ma anche disciplinati e obbedienti di fronte alle direttive di chi magari ha solo due o tre anni di più ma rappresenta ai loro occhi un’autorità riconosciuta. Nel gioco avventuroso che hanno costruito con le proprie mani appaiono trasformati, fino alla catarsi finale quando la pira si accende e loro ci danzano intorno, cantando e lanciando nelle fiamme petardi e indumenti.
Quando si parla di città dei bambini, a Napoli bisogna fare i conti anche con queste realtà. Limitarsi a stigmatizzare certi comportamenti, contrapponendogli modelli edificanti e consolatori, significa voltare la testa dall’altra parte, delegare all’intervento della forza pubblica ogni deviazione di percorso, ogni possibile conflitto. È sempre stato difficile, per la scuola ma anche per gli educatori di strada, intervenire in maniera efficace in queste situazioni di confine. È ancora più difficile oggi, con il mestiere di educatore ridotto a brandelli dalle politiche di austerità e dalle cattive amministrazioni locali. Se guardiamo in che stato sono ridotte le istituzioni cittadine che dovrebbero fare da ponte tra la scuola e la strada, sembrerebbe un obiettivo addirittura improponibile. Solo per fare due esempi, la ludoteca cittadina, con sede ai Miracoli, è chiusa da sei mesi a causa di lungaggini burocratiche che riguardano il rinnovo del bando di gestione, e si spera che riapra finalmente a febbraio. Il bellissimo centro polifunzionale di Marechiaro, che in questi anni ha ospitato, anche in residenza, bambini provenienti dalla città e dall’estero, e poi laboratori per minori disabili, stage di formazione e convegni per operatori sociali, rischia praticamente di chiudere, o meglio di restare aperto solo nei mesi estivi, da un lato per l’esaurirsi di molti progetti, dall’altro per i tagli al salario accessorio dei dipendenti che non consentirebbero più alcune prestazioni e in particolare la turnazione notturna.
In realtà, sono decine i luoghi, all’aperto e al chiuso, potenzialmente utilizzabili ma di fatto preclusi ai bambini, e in particolare a quelli che si trovano in situazioni sociali e familiari fragilissime. Ma è proprio in questo contesto, in cui enormi sono le difficoltà per le istituzioni educative, che ha ancora più senso domandarsi se un’occasione di emancipazione, spesso anche solo di istruzione, debba essere accordata a tutti, o se sia giustificabile in questa situazione operare delle scelte, selezionare, lasciare indietro qualcuno. Essere coscienti di quel che accade nella strada, disporre di mezzi e di strutture adeguate, saper trovare un terreno di comprensione, di interazione rispettosa, di dialogo con certi bambini e adolescenti, significa porsi il problema di non lasciarli di fronte a un unico inevitabile referente, coloro che sulla strada gestiscono i traffici illeciti e che per farlo hanno sempre bisogno di nuove truppe di riserva da arruolare.
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