Nelle strade e nei vicoli dove è preponderante la presenza di residenti immigrati, provenienti soprattutto dallo Sri Lanka, compaiono ciclicamente dei manifesti che pubblicizzano offerte di spedizionieri di container da e per i porti asiatici. Una grande nave portacontenitori affronta le onde d’alto mare carica di rimesse materiali o suppellettili familiari, in un viaggio dai costi convenienti. L’approdo è il porto di Napoli, di cui soltanto una minima parte è dedicata alla movimentazione dei container. Uno scalo finora rimasto incompiuto, sottoutilizzato e sempre al centro di un dibattito quasi sotterraneo sullo sviluppo della città.
Napoli ha un porto che potrebbe fare tanto di più, ma non nei termini di un ingenuo positivismo economico che vuole semplicemente più traffico quanto piuttosto in quelli di una maggiore “intelligenza spaziale”. Il porto di Napoli è un crogiolo disordinato di spazi-spezzatino dove aree con identica funzione si ritrovano separate con la conseguenza che la merce, i globuli rossi di un porto commerciale, seguono la traiettoria di un frattale.
Come nell’architettura funzionalista, la forma di un porto riflette quello che fa, non il contrario. Il porto di Napoli fa un po’ di tutto, è polifunzionale. Si tratta di una definizione precisa, stabilita dalla legge (84/94), cioè deve movimentare ogni tipologia di merce perché è un porto regionale, un canale di approvvigionamento vitale di risorse per la Campania; non può permettersi di specializzarsi senza mandare in crisi qualcosa.
Questa sua natura ha un prezzo: le merci a Napoli sono timide. Timido è di conseguenza anche il cluster marittimo, seppur orgoglioso della sua storia secolare; timida l’amministrazione pubblica, la lungimiranza imprenditoriale, anch’essa divisa in corporazioni in conflitto che si compattano solo quando c’è da lamentarsi. In un porto polifunzionale è timida anche la fotografia: le immagini più suggestive dei porti, quelle che ritraggono distese di container e ampie prospettive di gru, vengono nella maggior parte dei casi da scali specializzati che possono permettersi ampie distese di una sola merce.
Il porto di Napoli fa un po’ di tutto. È democratico. L’unica cosa che riesce a movimentare in grosse, davvero grosse quantità sono le persone. Tutto il resto entra ed esce a piccole dosi, considerando poi che lo spazio è poco. Napoli è un porto millenario con una città altrettanto millenaria alle spalle. Le città portuali di Shenzhen, Hong Kong, Amburgo, Los Angeles hanno avuto la fortuna di essere nate in epoca moderna (Amburgo è stata ricostruita da capo settant’anni fa), la loro topografia è andata di pari passo con le esigenze dell’economia-mondo. Perfino Rotterdam, come Amburgo, è stata completamente rasa al suolo nella seconda guerra mondiale, cosa che le ha permesso di ristrutturarsi mantenendo il suo ruolo di capitale marittima d’Europa. Napoli è stata fortunata, essendo scampata al maximum use of fire di Churchill, la tempesta di fuoco dei Bomber Command inglesi che negli anni Quaranta hanno portato alla distruzione totale di numerose città europee. Napoli non ha mai avuto l’opportunità di ripianificare il suo porto aggiornandolo al ventesimo secolo, quello dell’“enorme raccolta di merci” contenuta nei container. Il suo piano regolatore risale al 1958, quando c’erano ancora le navi a vapore.
I confini del porto, le ali che lo delimitano, sono due strutture abbandonate, il molo San Vincenzo a Ponente e il porto Fiorito a Levante, per un fronte mare di quasi cinque chilometri. Il San Vincenzo è stato utilizzato fino al dopoguerra, porto Fiorito non è mai nato. Il primo è un molo borbonico che raggiunge i due chilometri e mezzo se si aggiunge l’antemurale finale. Porto Fiorito è un cantiere da centoventi milioni di euro destinato a una “marina”, un polo nautico da quasi mille posti barca inaugurato in pompa magna nel 2011. Doveva essere pronto nel 2013 ma oggi il cantiere è ancora lì.
Continuando da Ponente, dopo il San Vincenzo inizia il cuore pulsante del porto, quello da milioni di passeggeri l’anno, il molo Beverello, affiancato dal molo Angioino della stazione marittima, centro di smistamento crocieristi. Da Beverello partono e arrivano con le navi veloci, gli aliscafi, i turisti e i pendolari di Ischia, Capri e Procida. Accanto all’Angioino c’è calata Piliero, punto di sbarco di quelli che una volta si chiamavano i “postali”, le navi responsabili dell’approvvigionamento delle isole. Oggi il termine è stato sostituito da “ro-ro/ro-pax”, unità cariche di merce rotabile, in sostanza navi che non trasportano merce ma camion, che a loro volta trasportano merce. Quelle per Palermo si chiamano Raffaele Rubattino e Vincenzo Florio, quella per le eolie Laurana, per Cagliari Dimonios e per Catania Cartour Gamma. Più diverse altre come Majestic, Snav Toscana e Snav Lazio. Approdano a giorni alterni, tutti i giorni da decenni, senza mai mancare un appuntamento, salvo mareggiate.
Dopo il Beverello, l’Angioino e il Piliero c’è il primo spazio vuoto, il palazzo dei Magazzini Generali, edificio “pesante” per il magazzinaggio. Vincolato dalla soprintendenza, ha visto negli anni un susseguirsi di progetti e proposte per renderlo vivibile. Ultima proposta, quella di farci un “museo del mare e dell’emigrazione”, di cui al momento è noto solo il progetto di ristrutturazione. Progetti senza contenuti. A seguire un altro spazio vuoto, quello dell’Immacolatella Vecchia, edificio costruito da Carlo di Borbone nel diciassettesimo secolo e abbandonato da decenni. Oggi il piazzale antistante è una zona di transito per i camion che dall’autostrada entrano nel porto e si dirigono verso il terminal ro-ro del Piliero. Dopo l’Immacolatella c’è calata Porta di Massa che chiude la zona di partenza dei traghetti verso le isole iniziata con gli aliscafi del Beverello. Da Beverello a Porta di Massa abbiamo quindi una zona passeggeri abbastanza ampia (circa un chilometro) divisa a metà strada da una zona destinata al movimento dei rotabili. Merci e passeggeri insieme, niente di più disordinato. Nonostante il caos, in quest’area salgono e scendono dalle navi ogni anno tra i sei e i sette milioni di passeggeri, escluse le navi da crociera che portano a bordo poco più di un milione di persone ma da cui ne scendono circa un terzo.
Dopo la zona passeggeri inizia quella istituzionale. Piazzale Pisacane, di fronte il varco Pisacane di via Marina, ospita il palazzo dell’Autorità portuale e della Capitaneria di porto. La prima ha sovranità a terra, sul demanio, la seconda a mare, sul traffico. E con questo si potrebbe dire finito il porto noto ai più, anche se non siamo neanche a due chilometri e mezzo dei quasi cinque del fronte mare. Da questo punto in poi inizia l’area pesante: navalmeccanica, riparazione scafi e motori. È la zona del lavoro “duro”. Se finora abbiamo avuto a che fare con biglietterie, negozianti, hostess, agenti di viaggio, autisti, la comunità portuale che va dal varco Pisacane al Vigliena è quella composta da operai.
Si parte da calata Villa del Popolo. Una zona sottoutilizzata, semiabbandonata, con una parte di molo adibita ad attracco di navi in attesa di destinazione, se non abbandonate, l’ultima delle quali è stata l’oceanografica Bannock. È una delle zone più caotiche del porto. Ci risiede qualche società di ingegneria nautica, un bar con cannoli siciliani freschi e il Posto unico d’ispezione frontaliero, di recente inaugurazione, che svolge i controlli fito-sanitari. Dopo Villa del Popolo inizia calata della Marinella che termina con la spiaggia della Marinella. È la zona dei cantieri navali che litigano tra loro per lo sfruttamento del bacino di carenaggio galleggiante, l’unica infrastruttura utile per le commesse più remunerative.
Lasciata la Marinella si approda all’ultima parte del porto, la più fotogenica, la zona dei terminal container e della darsena petroli, anticipata poco prima dai silos delle granaglie dove sbarcano le navi porta-rinfuse. Flavio Gioia, Soteco e Conateco sono i tre terminal container. È il regno degli oggetti di consumo ma soprattutto dell’oggettistica, di cui Napoli è la principale porta di distribuzione per l’Italia meridionale. Qui i container convivono a stretto contatto con i combustibili. Mentre le petroliere si allacciano direttamente alle condutture che distribuiscono l’energia a tutta la città, le portacontainer scaricano e caricano merce a poche centinaia di metri. A dividere i delicati container dagli infiammabili gasdotti c’è il rimessaggio di Nuova Meccanica Navale, l’ultimo cantiere navale, isolato da quelli di calata della Marinella. Fasci di tubi carichi di gas e gasolio avvolgono il terminal di Conateco. Di fronte, a pochi metri, un’abitazione di sette piani. Niente di pericoloso, in realtà. Il rischio, come riferisce la gente del posto e ogni ingegnere che ha provato a progettare una razionalizzazione degli spazi di questa zona al confine con San Giovanni, si fa concreto solo nei casi di furto, oggi sempre più rari, quando i ladri si allacciano direttamente alle tubazioni per rubare qualche quintale di gas. (paolo bosso)
Leave a Reply