Le parole sono importanti, a volte hanno dentro la potenza dell’utopia, possono far accadere le cose. Saverio La Ruina è un archeologo delle parole, che ricerca e mette insieme, a rammendare storie, un racconto costruito con l’antica sapienza di un sarto. Dopo le memorie emigranti di Italianesi e l’immersione nell’universo borghese di Polvere, come già in Dissonorata e La Borto, torna a scavare nella terra antica di Calabria, ritrovando in quel dialetto che è radice popolare, pietra dura del Pollino ma anche odore dello Ionio, le ramificazioni di Masculu e fìammina, prima di ogni altra cosa un racconto sull’amore, il racconto di una vita.
«Sungu nu masculu ch’i piacinu i masculi» dice Peppino, il protagonista di questa pièce, rifiutando non solo il «ricchiù, ricchiù!» gridato dai ragazzi del paese, ma anche quella distinzione tra omosessuali ed eterosessuali che è già classificazione ed etichettamento. Lo dice alla madre, sulla sua tomba innevata, e non è un “outing”: non necessita disvelamento quanto per pudore non era stato esplicitato, ma riconosciuto e per questo vissuto con una quotidiana tenerezza; né è confessione, ché non ci sono colpe o peccati da espiare, piuttosto un racconto da condividere. L’ambiente sepolcrale, con i suoi rimandi a una religiosità popolare che immagina un Paradiso giusto aperto ai puri di cuore, non è solo espediente narrativo, ma parte della narrazione, un pezzo fondante di questa storia del sud Italia che si dipana dagli anni Sessanta ai giorni nostri.
Lo spettatore la segue lungo i sentieri segnati dalla gestualità di Peppino, il risultato di uno studio attoriale che La Ruina continua ad approfondire, spogliando la scena da tutti gli eccessi del teatro manieristico e dalle nevrosi dell’attore denudato, per restituire allo sguardo il corpo nella sua autenticità, i movimenti sul palcoscenico alla misura della vita. La vita di Peppino, che dalla prima pubertà scopre l’attrazione per i masculi, incontra il rifiuto del piccolo paese che risuona come eco nella piazza e trova sfogo sul pulpito del prete, ma anche l’ostracismo di una sinistra che traveste la rivoluzione con l’eskimo, edificando un’altra chiesa bigotta.
A dare forza a Peppino saranno gli affetti femminili della sua quotidianità familiare, ma anche e soprattutto le parole di un insegnante che si fa educatore, l’amicizia di Vittorio, il desiderio carnale, l’eros che si accompagnerà a thanatos, e poi, soprattutto, l’amore. La prima storia importante con Angelo è in quel tenersi stretti su una Lambretta, anche a costo di essere scoperti. Fino al giorno in cui Angelo lo lascerà per cercare una moglie, perché «al paese due uomini insieme saranno sempre e solo due ricchiuni». E poi il grande amore, Alfredo, trevigiano conosciuto in una Riccione degli anni Settanta aperta e accogliente, fino all’epilogo di una morte violenta che li sorprende, con bastonate omofobe, mentre sono appartati in macchina. Peppino sarà costretto a lasciare il corpo nell’auto e tornare in treno al paese, ché non avrebbe potuto spiegare, e quando proverà a farlo alla famiglia di Alfredo, troverà come risposta il silenzio.
Si è compagni di Peppino nei suoi ricordi più allegri, che hanno l’eco del riso del pubblico, e nei suoi dolori, che muovono emozioni ma mai compatimento, volgendosi non alla pancia ma alla coscienza degli spettatori, riscoprendo il valore di un teatro che non è intrattenimento ed evasione dal mondo, ma un tenersi nel mondo.
Come in molti altri spettacoli di La Ruina, le musiche originali composte da Gianfranco De Franco sono altro da un semplice accompagnamento alla scena. Arricchiscono la recitazione di sfumature, disegnano nuovi orditi, completano la trama. In un insieme che, anche per disegno luci e scenografie, restituisce il tratto distintivo della compagnia Scena verticale, diretta dallo stesso La Ruina e Dario De Luca con Settimio Pisano, dagli anni Novanta una delle più significative esperienze del teatro italiano. La stessa compagnia che promuove, tra maggio e giugno, a Castrovillari in Calabria, Primavera dei Teatri, festival dei nuovi linguaggi della scena contemporanea, alla sua diciottesima edizione. Masculu e fìammina, invece, andato in scena il 18 e 19 febbraio alla sala Pier Paolo Pasolini di Salerno, tornerà in autunno a Napoli.
Lungo l’autostrada, lasciando Salerno per tornare a Napoli, rifletto sul lungo percorso che si è realizzato, ma è in fondo ancora tutto da compiere, per il riconoscimento dei diritti delle persone e della comunità LGBT. Nel 1952 il primo manuale diagnostico psichiatrico, il DSM dell’American Psychiatric Association, catalogava l’omosessualità tra le patologie psichiatriche, un disturbo sociopatico della personalità, considerando gli omosessuali oppositori alla società e alle tradizioni morali. Nel 1968, la seconda versione del DSM associava l’omosessualità alle deviazioni sessuali (pedofilia, necrofilia, feticismo, voyeurismo, travestitismo, transessualismo) come disturbo mentale non psicotico. Nonostante nel 1973 una commissione dell’APA composta da tredici psichiatri decise all’unanimità di eliminare l’omosessualità dai disturbi psicosessuali, la terza versione del DSM del 1974 sceglieva ancora una soluzione di compromesso, distinguendo tra omosessualità egosintonica (in sintonia con il proprio io) ed egodistonica (in distonia con il proprio io), considerando quest’ultima come una malattia. Solo nel 1987, con la revisione della terza versione del DSM, l’omosessualità verrà definitivamente cancellata dalle categorie diagnostiche, superandone, quindi, l’individuazione patologica. Si dovrà aspettare il 1990 perché anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità rimuova l’omosessualità dall’elenco dei disturbi psichiatrici.
Le unioni civili, i matrimoni omosessuali, rappresentano oggi un significativo avanzamento nel campo dei diritti. Eppure, ancora, l’omofobia, l’ipocrisia perbenista, la paura del “diverso”, confinano le inclinazioni sessuali nel campo dell’estraneità, definiscono logiche e prassi di rifiuto e rigetto dell’alterità. Il rispetto dell’altro resta, per dirla con Basaglia, un’utopia della realtà, tutta ancora da realizzare. Allora ho ripensato al finale di Masculu e fìammina, alla leggerezza della neve con la quale Peppino si ricopre sperando che ci sia un giorno «un mondo più gentile». Le parole sono importanti, a volte hanno dentro la potenza dell’utopia, possono far cambiare le cose. (antonio esposito)
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