da: Horatio post
È tutto un complesso di cose che mi ha portato stamattina a Ponticelli. Prima Federica e Giovanni mi hanno raccontato degli orti urbani fioriti proprio al centro del grande parco pubblico, poi è stato Luca a portarmi una copia del librino Vita di Aniello Borrelli narrata da lui medesimo, pubblicato da Napoli Monitor, che è il racconto, lungo tutto il Novecento, di un figlio di contadini di queste terre che diventa operaio, poi dirigente di spicco della sinistra, mentre nasce la Repubblica, e Ponticelli si trasforma in pochi decenni da borgo agricolo a cittadina a periferia.
Atterro a via Argine dalla 162, strada pazzesca, un viadotto ininterrotto che viene giù dai pinnacoli del Centro direzionale, come se la città non esistesse, quasi fosse un inconveniente da scavalcare in fretta, e mi trovo nella Napoli orizzontale, senza il mare e le colline, la pianura di terra e acqua dov’erano i lagni, le masserie, i mulini, i pioppi alti e le fabbriche, e dove il vulcano non sono i Flegrei, ma il profilo imponente del Somma-Vesuvio.
Nel vialone attorno al parco De Filippo c’è gente che fa jogging, porta a spasso il cane, all’angolo c’è la camionetta dell’esercito con tre ragazzi in tuta mimetica. Il parco è enorme, nove ettari, come la Floridiana, è una delle opere della Ricostruzione. Realizzato negli anni Ottanta restò chiuso un decennio, una specie di giardino proibito, e finalmente inaugurato all’inizio degli anni Novanta. In realtà, la parte curata del Parco si ferma grosso modo al primo ettaro, con il grande piazzale contornato da una specie di pergolato, una cosa tra Gilgamesh e l’Alhambra. Per il resto, la vegetazione di pini palme oleandri e magnolie è lasciata a sé stessa, e va evolvendosi in boscaglia, i viali e gli arredi finiscono in malora, ed è proprio in questa terra di nessuno che Anna Ascione ha deciso di far nascere il suo laboratorio sociale.
Trovo Anna ad accogliermi all’ingresso del parco, il vento che spazza il cielo in questa mattinata azzurra di dicembre le scarmiglia i capelli biondi sul giaccone rosso, ha gli occhi verdi e un sorriso aperto, contagioso. Anna lavora nel servizio dipendenze dell’Asl Napoli 1, dirige “Lilliput”, il centro diurno semi-residenziale che segue una ventina di giovani, nato nel solco del lavoro di Mario Petrella, il grande psichiatra che a queste cose ha dedicato tutta la vita, e se n’è andato anzitempo, ai primi di dicembre.
L’accesso agli orti è indicato da una insegna a mosaico, l’hanno realizzata i ragazzi, all’inizio del porticato che si inoltra nel parco, ai lati sono le terrazze coltivate, dove prima era solo sterpaglia. La riconquista faticosa dell’area l’ha raccontata Cristina Zagaria su Repubblica, in un bell’articolo dell’ottobre 2015, quando ci fu l’inaugurazione, ed è una storia di furti incendi sabotaggi, il lavoro di Anna e dei ragazzi fu contrastato in ogni modo, perché qui la “terra di nessuno” non esiste, Bauman aveva ragione, ai bordi delle città gli spazi vuoti sono alla fine quelli più presidiati e contesi.
Alcune delle terrazze sono coltivate direttamente dai ragazzi, le altre sono date in adozione, ciascuna ad un’associazione, un gruppo, un’istituzione ed è così che intorno agli orti è nata una rete territoriale che, mi dice Anna, «è la vera infrastruttura terapeutica». Ci sono le scuole pubbliche, con le materne e le elementari del 48° Circolo didattico; gli istituti superiori Calamandrei, Archimede, Marie Curie, Tognazzi-De Cillis; le parrocchie, le associazioni (Arteteca, Pax Cultura, ReMida, Arcobaleno, Strada Facendo, Ardea); e poi Libera, Emergency, l’associazione Maestri di strada, e altre ancora. «Intorno agli orti è cresciuta tutta una comunità, ci riuniamo una volta al mese per programmare il lavoro e le iniziative da intraprendere, c’è dentro la gente più diversa, proveniente da tutti i ceti, i lavori, le professioni».
Gli orti sono davvero uno spettacolo, è un ricamo perfetto di colture contro la terra nera, ora è un trionfo invernale di insalate, cavoli, broccoli, finocchi, cipolle. Antonio, uno dei neo-agricoltori della rete, mi mostra orgoglioso un filare di “lengua ‘e cane”, una varietà di friarielli a foglia stretta, dal sapore particolarmente amarostico. Sotto il portico Carmelo sta dipingendo a colori vivaci un serbatoio metallico arrugginito: nella rete c’è un gruppo di artisti, e mi sembra che nel moggio faticosamente riconquistato, veramente si realizzi una sorta di piccola kalokagathia, l’ideale greco nel quale il bello e il buono coincidono, in questo giardino di umanità ritrovata, sullo sfondo delle torri verticali di edilizia popolare.
«Qui c’è tanta gente diversa, ed è stata l’agricoltura, il lavoro sulla terra a fornire un interesse e un linguaggio comune». La conversazione con Anna prosegue nel baretto all’ingresso del parco, il luogo è accogliente, ai tavolini un gruppo di ragazze fa colazione, ci sono anziani che leggono il giornale, il barista è gioviale, mi invita ad assaggiare la sfogliata frolla, se non è buona non la pagherò. «I ragazzi di agricoltura non sapevano nulla, ma nella rete è riemersa la cultura contadina di Ponticelli, che la modernizzazione aveva accantonato ma non distrutto, ed ora sono diventati bravi, sono in grado di tirare le porche dritte come si deve, coltivare l’orto si è rivelata innanzitutto una buona disciplina».
Anna mi mostra una locandina, la mattina del sedici dicembre c’è stata la festa di Natale, con la gente del quartiere, si è mangiato e brindato, allietati dal coro dei bambini del 48° circolo, e dalle musiche dei ragazzi del centro Lilliput, che si sono esibiti insieme all’orchestra del liceo Calamandrei. Per l’occasione ogni associazione della rete ha decorato a suo modo uno degli alberi appena messi a dimora, dono della forestale, e c’è stata anche la lotteria, in palio le cassette con i prodotti degli orti.
Con la rete territoriale, alla fine, Anna lavora per recuperare i suoi ragazzi, ma è evidente che le onde si propagano al resto del quartiere, e tutto parte dalla cura e dal lavoro comune sugli spazi dimenticati di vita. La rete delle associazioni, coi suoi orti, ha recuperato sino a ora quasi un moggio, poco meno di tremila metri quadri, ma qui ci sono ettari ed ettari da riconquistare, che non sono solo quelli del grande parco pubblico.
Perché il parco “De Filippo” è grande una decina di ettari, ma è a sua volta immerso in un vuoto urbano che si estende per centocinquanta ettari, più di Capodimonte. Un mosaico di incolti, lotti liberi, aree dismesse e spazi verdi, in attesa di non si sa bene cosa. Con la trasformazione edilizia e infrastrutturale rapace, il tessuto di masserie agricole, che ancora nel 1970 era quello settecentesco della mappa del Duca di Noja, è stato in gran parte distrutto, ma la terra è rimasta, ed è quel finto spazio vuoto, alla fine, che costituisce il principale generatore di illegalità, insicurezza, disagio.
In questa situazione di città precaria, perennemente incompiuta, gli orti sociali di Anna potrebbero diventare il seme di un progetto più ampio, per recuperare e ricucire gli spazi, assieme alle relazioni tra gli uomini; per restituire a ogni metro quadro di terra senso, funzione, dignità. Un progetto nel quale ci sono le istituzioni, faticosamente costrette a lavorare insieme, e le comunità locali, in quella che appare, nel vuoto pneumatico di politiche e strategie, una modalità concreta per rigenerare il territorio, assai più che la tiritera inconcludente sui beni comuni.
Mentre ci salutiamo ci raggiungono Luciano, Corrado, Margherita, tre giovani collaboratori di Anna, lavorano nella cooperativa di educatori che fa parte della rete, le raccontano di non so quale difficoltà, lei se li stringe, li rassicura con la sua ridente nonchalance, a me sembra una forma superiore e necessaria di intelligenza, che la sequenza stupida di resistenze, inefficienze, inerzie riesce appena, per fortuna, a scalfire. (antonio di gennaro)