Conversazione con Emanuele Valenti sul progetto Punta Corsara appena concluso. Quattro anni di formazione per giovani attori, tecnici e organizzatori teatrali. Ma anche il tentativo di portare il teatro di ricerca a Scampia, a partire dall’auditorium
A metà degli anni Novanta esisteva un posto denominato “Il Cerriglio”, tre stanze umide e screpolate, una dentro l’altra, in fondo a un vicolo stretto e in salita alle spalle di via Sedile di Porto. Quel luogo era animato da un gruppo di giovani in età universitaria, insofferenti all’inquadramento pecorile che affligge ogni movimento studentesco e desiderosi di mettere in pratica le proprie idee e inclinazioni. Alcuni cominciarono subito un doposcuola pomeridiano con i bambini del vicolo, dove abitavano non più di tre o quattro famiglie ma con una prole sufficiente, per numero e vivacità, a tenere impegnati parecchi di quei giovani volenterosi; altri erano teatranti o aspiranti tali e per questo montavano spettacoli o invitavano altre compagnie o attori amici a esibirsi sull’esiguo palco nell’ultima stanza del Cerriglio.
Una sera, nell’imminenza di una di queste esibizioni, che si svolgevano alla luce di un gran numero di candele, mi capitò di assistere alla cacciata dei bambini del vicolo, che si rincorrevano da una stanza all’altra come se fossero in casa propria, incuranti del pubblico, e quindi minacciavano l’ordinato svolgimento dello spettacolo. In effetti, a volte quel posto li accoglieva nel pomeriggio per respingerli la sera.
Mi viene in mente quella notte ogni volta che parlo di teatro e di ragazzini, e di teatri che tengono alla larga i ragazzini, con Emanuele Valenti. C’era anche lui quella sera al Cerriglio e sosteneva la linea della fermezza verso i piccoli disturbatori. Era un giovane attore e difendeva il diritto di chi sale sul palco a esigere rispetto e silenzio durante la propria esibizione, o qualcosa del genere. Quella sera ci ritrovammo a discuterne accanitamente fino a tarda ora, e in qualche modo facemmo amicizia. In seguito Emanuele ha cambiato radicalmente avviso, e lo dimostra il suo percorso di attore, educatore e attivista. Tra l’altro ha recitato e organizzato rassegne teatrali al Damm di Montesanto, dove i bambini e i ragazzi del quartiere erano di casa e non erano certo un pubblico facile da conquistare, ha inventato spettacoli e fondato compagnie con altri teatranti, ha lavorato per conto proprio in tempi di riflusso, recitando, per esempio, le fiabe e i cunti nei cortili del centro storico, con il patrocinio di un fantomatico assessorato “alle azioni spregevoli”.
Nel 2006 era una delle guide nella prima edizione di “Arrevuoto”, uno dei pochi progetti culturali istituzionali degni di nota in questi anni, non a caso fondato su un nucleo di operatori provenienti dalle esperienze dei centri sociali negli anni Novanta, a cavallo tra intervento politico e culturale. Arrevuoto metteva insieme, e lo fa tuttora, adolescenti del centro con quelli della periferia facendoli interagire attraverso il teatro. Forse anche per l’impegno e la convinzione con cui ha lavorato nel primo anno di Arrevuoto, a Valenti è stato proposto di affiancare il direttore artistico Marco Martinelli nel progetto “Punta Corsara”, creato per dare continuità ad Arrevuoto, e che poi si è sviluppato in modo autonomo in diverse direzioni.
L’esperienza di Punta Corsara si è aperta nel 2007 e si è chiusa nel dicembre scorso, dopo quattro anni, i tre previsti più uno di proroga, finanziati con i soldi del patto stato-regioni, e da un certo momento in poi solo dall’ente regionale campano. L’ultimo anno Martinelli, regista e fondatore del “Teatro delle Albe” di Ravenna, e Debora Pietrobono, direttrice organizzativa del progetto, hanno passato il testimone rispettivamente a Emanuele Valenti e Marina Dammacco. Con Valenti facciamo un bilancio di quattro anni di lavoro intenso e del futuro possibile per i partecipanti al progetto.
«Dopo i primi due anni, mentre Arrevuoto continuava con sempre nuovipartecipanti, l’obiettivo diventava seguire i più motivati tra quelli che avevanocompiuto diciotto anni e formare con loro una compagnia di attori, tecnici e organizzatori che facesse spettacoli e con iltempo potesse gestire una parte dell’auditorium di Scampia, che nel frattempo doveva essere restaurato. Con Martinelli abbiamo scelto ventidue ragazzi e ragazze: cinque da formare come tecnici, cinque come organizzatori, dieci come attori e due come danzatori. Tutti, tranne uno, avevano finito la scuola. Quelli provenienti da Scampia erano una quindicina, compresi cinque rom. Io ero il tutor di attori e danzatori, Debora Pietrobono degli organizzatori, Antonio Gatto dei tecnici. I ragazzi provenivano da ambienti eterogenei: figli di operai e figli del ceto medio ma anche i rom. Alla fine alcuni hanno lasciato perché la famiglia richiedeva loro di guadagnarsi da vivere, altri perché avevano la possibilità di andare a studiare o lavorare fuori. Il gruppo di Scampia, con cui continuiamo a lavorare, ha resistito fino alla fine».
Nel percorso di Punta Corsara si può distinguere una prima fase dedicata alla formazione, gli anni 2007 e 2008; una seconda di consolidamento del gruppo, con meno laboratori e l’avvio della prima produzione, uno spettacolo tratto da Viviani con laregia di Arturo Cirillo; infine l’ultimo anno, con l’inclusione dei ragazzi “superstiti” nello staff del progetto e, una volta chiusa l’esperienza, il rilancio con la costituzione di un’associazione culturale autonoma e di una vera e propria compagnia. «I ragazzi si sono formati conoscendo numerosi attori e registi. L’obiettivo era di passare delle tecniche ma soprattuttoci interessava farli incontrare con delle poetiche, dei modi di vivere il teatro e l’arte diversi da quelli di consumo, dai modelli televisivi di “Amici” ecompagnia. La prima cosa che chiedevamo ai maestri era di raccontargli la loro relazione con l’arte. Sentivamo che il problema forte era quello del senso. La maggior parte di loro all’inizio non sapeva che cosa fosse il teatro. Hanno avuto la possibilità di lavorare con Manfredini, Santagata, Morganti, che all’inizio perloro non erano nessuno. Ognuno dei ragazzi ha fatto un percorso approfondito. Per due anni non abbiamo fatto spettacoli. Oltre a formarsi, dovevano accompagnare i più piccoli che si cimentavano con la nuova edizione di Arrevuoto, ma senza andare in scena. Facevano i laboratori e d’estate partecipavano come tirocinanti ai festival italiani per noi più significativi. Hanno cominciato a vivere come gruppo, hanno capito che l’obiettivo nonera mettersi sul mercato teatrale ma costruirequalcosa di stabile a Scampia. Soloalla fine del secondo anno sono andatiin scena con la regia di Cirillo nell’ambitodel Napoli Teatro Festival Italia.Nell’ultimo anno poi sono entrati tuttia lavorare nel progetto, gli organizzatoriin ufficio, i tecnici seguendo gli spettacolia Napoli e fuori, gli attori facendole prove per la seconda produzione, unospettacolo da Moliere in cui c’erano sololoro in scena. Con questo gruppo è natal’associazione con la quale vogliamo proseguireil lavoro. Ci piacerebbe produrrespettacoli come compagnia e organizzareeventi e percorsi sulla linea seguita inquesti anni».
L’auditorium di Scampia è l’altro perno intorno al quale ruota la storia di PuntaCorsara. Doveva essere pronto nel 2007 mai lavori sono partiti solo nel 2010. La fine del cantiere è prevista per marzo 2011, ma al momento non sono stati stanziati i soldi per la gestione. «L’auditorium appartiene al comune che potrebbe assegnarlo alla fondazione “Campania dei festival” – responsabile di Punta Corsara e del Teatro Festival – per assicurare che il posto continui a vivere con le persone che ci hanno lavorato in questi anni. Ma la fondazione è legata alla precedente amministrazione e i suoi vertici, Rachele Furfaro e Renato Quaglia, sono appena cambiati. In questi anni l’auditorium è stato utilizzato grazie a una “agibilità straordinaria”, con la collaborazione dell’ottava municipalità. Per due anni abbiamo allestito in maniera provvisoria lo spazio, facendo una rassegna nel 2008 dentro e fuori il teatro, poi nel 2009 con una vera e propria stagione teatrale. L’ultimo anno i fondi sono stati bloccati, mentre l’avvio dei lavori si è prolungato talmente da impedirci di programmare qualsiasi tipo di attività. Tutte le prove della nostra seconda produzione le abbiamo fatte cercando ospitalità in giro per Napoli. Un giorno abbiamo chiamato il San Carlo, così per provare, e per due settimane abbiamo lavorato nella sala prove più bella che abbia mai visto, nel soffitto del San Carlo».
Il primo anno di attività Punta Corsara ha ricevuto settecentomila euro dal ministero e altrettanti dalla regione, questi ultimi girati direttamente al comune per restaurare l’auditorium. Il secondo anno un milione da ciascun ente, poi nel 2009 il ministero si è sfilato ed è rimasta l’amministrazione regionale, ma l’ultimo anno i finanziamenti sono stati bloccati. I primi anni però i soldi c’erano e sono stati investiti sostenendo percorsi pedagogici sul territorio, laboratori di break dance, di arti circensi, di murales…
«In questi anni abbiamo invitato artisti che fanno un lavoro simile al nostro, coinvolgendo anche persone che non hanno normalmente a che fare con il teatro, valorizzando l’idea che si può avere allo stesso tempo un risultato artistico alto e un coinvolgimento forte del sociale. Per esempio, al coreografo Virgilio Sieni, che a Modena faceva uno spettacolo di danza coinvolgendo anziani e bambini, abbiamo proposto di farlo a Napoli, e dopo quattro mesi di laboratori a “Villa Nestore”, un centro anziani di Chiaiano, e nelle scuole di danza di Arzano, Secondigliano e Scampia, nel novembre scorso c’è stato lo spettacolo al San Ferdinando, purtroppo solo per una sera. Abbiamo toccato anche il mondo dell’hip hop, coinvolgendo una crew composta da due ragazzi napoletani, uno di origine capoverdiana e uno di origine cinese. Abbiamo portato quaranta ragazzi a due contest nazionali, uno a Ravenna e uno al festival di Sant’Arcangelo. Volevamo fare un contest nazionale a Scampia, nella piazza Grandi Eventi, ma non c’erano più soldi. In questi mesi la nuova giunta regionale ha bloccato la liquidità contestando alla fondazione la gestione dei soldi, soprattutto quelli del Teatro Festival, e ci siamo andati di mezzo anche noi, che siamo il progetto minore».
Che errori avete fatto? «I soldi erano tanti e abbiamo fatto il possibile per non calare le cose troppo dall’alto. Abbiamo coinvolto molte persone che non avevano relazioni con le istituzioni. L’obiettivo era far vivere l’auditorium da persone che non sono considerate soggetti culturali. Poi a Scampia ci sono centomila persone, noi continuiamo a considerarlo un quartiere ghetto ma ci abita gente diversissima… Per i rom il percorso andava fatto quasi ad personam, con un accompagnamento che riguardasse tutto il resto della loro vita. I danzatori rom all’inizio se non li andavamo a prendere al campo non sarebbero mai andati fino alla scuola di danza del Vomero a fare il corso, poi si sono appassionati e sono andati per conto loro. Ora uno è in Croazia, l’altro si è sposato. Il primo anno abbiamo dato borse di quattrocento euro al mese a ciascuno dei ragazzi. Nell’ultimo anno gli organizzatori hanno avuto contratti a progetto e gli attori sono stati scritturati per gli spettacoli e così accade ora per la compagnia come associazione. Non si è riuscito a portare fino in fondo tutto, alcuni progetti sono rimasti isolati, alcune cose sono partite e non hanno trovato uno sbocco, ma rispetto alla grandezza del progetto è andata meglio di come ci si poteva aspettare».
Che accoglienza ha avuto questo lavoro nell’ambiente teatrale e come è stato recepito in città? «L’accoglienza fuori dalla città è stata ottima. Abbiamo vinto il premio Istrio e il premio Ubu. A volte mi chiedono della camorra e io gli dico che il problema è la televisione… Dalla nostra città abbiamo ricevuto critiche di vario tipo, non tutti sono stati d’accordo sul teatro a Scampia o sulla nostra preferenza per le compagnie di ricerca rispetto a quelle tradizionali. Molti all’inizio non hanno capito che non stavamo facendo solo formazione professionale… Si è creato un pubblico misto che ha frequentato l’auditorium. Abbiamo fatto una serata di danza a Scampia con trecento persone, dai punk alle famiglie dei ragazzi. Alla fine non abbiamo fatto Peppe Barra e Maria Nazionale, anche se avremmo voluto percorrere questo doppio binario, di ricerca e popolare, ma a un certo punto non c’erano più i soldi e nemmeno il teatro…».
In questi anni i ragazzi sono cresciuti. Molti di loro si sono iscritti all’università, anche se non tutti continuano. Un po’ alla volta hanno preso coscienza di quel che stavano facendo. La cosa più complessa, come sempre in questi casi, è stato tenere unito il gruppo. «Ogni cosa fatta è piena di episodi da raccontare. Le compagnie giovani che hanno dormito a casa dei ragazzi, i registi e attori giovani a cui loro si sono legati, soprattutto quelli più giovani. Si è aperto un ventaglio di possibilità, sia per loro ma anche per chi è venuto da fuori… All’inizio, c’erano tante cose che i ragazzi non comprendevano: la puntualità, la gravità di saltare un giorno di lavoro. Poi hanno capito che non erano più a scuola, che non dovevano imparare delle cose per forza, e non serviva guardare le mancanze degli altri ma far bene le cose per se stessi. Quando hanno cominciato a lavorare con i ragazzi più piccoli, si sono dimostrati molto pazienti. Hanno capito la differenza tra il teatro come festa, che è un modo di giocare con il teatro, in cui si deve tenere tutti dentro, anche gli outsiders, e il percorso che stanno facendo loro, che deve essere il frutto di una scelta… Anche per me è stato bello osservare questo cambiamento. Quando avevo la loro età facevo un laboratorio di teatro al Vomero. Un giorno arrivò Enzo Moscato e ci portò al festival di Sant’Arcangelo, improvvisamente eravamo al centro del mondo teatrale. Adesso quando partiamo in pullman in quindici diretti verso il Nord, con solo due o tre persone sopra i trent’anni, mi viene in mente Moscato con noi ventenni e il casino che facevamo e come Enzo si sentisse responsabile… Anche lui è venuto a fare degli incontri in questi anni. I ragazzi sono rimasti affascinati. Lui gli ha suggerito di fare un lavoro sulle Quattro Giornate, l’ultima volta in cui la città si è ribellata… ». (luca rossomando)