da corriereimmigrazione.it, 13 gennaio 2013
Sono arrivate persone di ogni tipo: dall’anziana signora austriaca a un pensionato che vive al Nord, dai ragazzi volontari delle Brigate di solidarietà attiva a un’economista stanziato a Londra ma di origini calabresi. Tutte e tutti con la voglia di fare, di costruire, di non lasciare da sola Rosarno e la piana di Gioia Tauro, con un occhio rivolto ai ragazzi che lavorano nei campi a raccogliere arance e clementine, e ai proprietari di piccoli appezzamenti che con quanto ricavano dalla vendita dei propri prodotti non sono a volte neanche in grado di pagare i salari.
Rosarno, tre anni dopo. Tutto è cambiato e nulla è cambiato verrebbe da dire, sbaglia chi immagina chissà quali tensioni in corso nel periodo più duro e complesso del lavoro. Le persone giunte a dare una mano hanno risposto all’appello di campagneinlotta.org, in collaborazione con l’associazione Africalabria, per farsi trovare pronti a gennaio. Una vera e propria “campagna di reclutamento” a cui si aderisce inviando un curriculum in cui si definiscono le proprie esperienze passate in materia di immigrazione e lavoro, il tempo disponibile, il tutto per definire un intervento in grado di proseguire ininterrottamente almeno fino alla primavera. Un impegno volontario multidisciplinare, dai corsi di italiano per stranieri alla diffusione di informazione sui diritti del lavoro, ma servono anche specialisti per una ciclofficina, dato che i soli mezzi di locomozione che molti migranti hanno, per recarsi al lavoro o in paese, sono biciclette rabberciate alla meno peggio. E poi disponibilità a realizzare attività culturali (negli scorsi giorni ad esempio è stato proiettato un gran bel film su Thomas Sankara), mostre fotografiche, iniziative di incontro con la popolazione locale. Ovviamente le persone che accettano tale impegno debbono farlo a titolo esclusivamente volontario e a proprie spese, garantito è soltanto l’alloggio, mentre si dovrà contribuire per il cibo e si faranno iniziative di autofinanziamento per pagare la benzina necessaria per i trasporti quotidiani.
Questo è il frutto di un percorso costruito giorno dopo giorno, mettendo al centro la necessità di risolvere problemi concreti e il tentativo di garantire maggiori diritti ai lavoratori, e allo stesso tempo la ricostruzione dei sistemi relazionali con gli autoctoni. Ma poi c’è l’altra faccia della medaglia, la crisi del territorio e della produzione e quanto questo comporta, i mille elementi che hanno impedito modifiche strutturali del tessuto economico.
La fabbrica per la trasformazione delle arance in succo è stata chiusa, la frutta rischia di non poter essere più raccolta e di restare abbandonata, la grande distribuzione paga prezzi bassissimi agli oltre quattromila produttori del territorio, le arance da spremere vengono pagate sette centesimi al chilo, le clementine e le arance da tavola di più ma sempre in misura insufficiente. Gli almeno duemila migranti già al lavoro nella Piana sono ripartiti fra un “campo container”, dove alloggia chi ha tutti i documenti in regola (circa centocinquanta persone per centoventi posti disponibili) e una tendopoli, originariamente pensata per trecento persone ma che oggi ne ospita tre volte tante. Si trova nel comune di San Ferdinando il cui sindaco, per chiedere aiuto alle altre istituzioni e obbedendo alle richieste dell’azienda sanitaria provinciale, ha chiesto lo smantellamento della struttura perché inadeguata a ospitare esseri umani. Un provvedimento ineseguibile dall’unico agente di polizia municipale del comune, ma la stessa minaccia ha almeno attirato l’attenzione sulla tendopoli attorno a cui nel frattempo si sono aggiunte strutture di fortuna per ospitare gli altri lavoratori che arrivano e, come in cerchi concentrici, fuori, dispersi, ci sono decine di casolari abbandonati e diroccati dove trovano riparo i meno garantiti. Uomini che lavorano in gran parte al nero, quasi tutti in attesa di una risposta dalla commissione per la richiesta di asilo per potersene andare, di un documento che dia maggior libertà di movimento e renda meno ricattabili.
Giuseppe (Peppe) Pugliese, di Africalabria, che c’era prima e durante la rivolta e che ancora si batte per dare un senso alla storia della sua terra, racconta di un presente in cui il mondo si è fermato: «Il lavoro nero sembra quasi inevitabile, al di là dei pochi contrattualizzati e per pochi giorni si lavora per venticinque euro al giorno al lordo delle tariffe dei “caporali”. Tenendo anche conto che ci sono caporali che pretendono unicamente un pagamento per il trasporto ai campi e caporali che diventano delle vere sanguisughe per chi lavora. Di loro si ha paura ancora, se ci si ribella a loro si rischia di non trovare più lavoro». La realtà che tenta di raccontare Pugliese è complicata da accettare perché contempla un sistema basato sullo sfruttamento che uccide l’accoglienza. I “padroni” in gran parte, non sono in grado di pagare le tariffe sindacali: «Al di là di chi si avvale dei caporali e truffa esplicitamente i braccianti, molti affrontano le difficoltà ricorrendo a un altro sistema illegale: quello del cottimo. Un euro a cassetta di clementine e cinquanta centesimi per le arance. Ci sono ragazzi che in questa maniera riescono a portare a casa 35 euro al giorno, ma la maggior parte non arriva alla metà. Poi, la crisi ha fatto perdere il lavoro anche a molti cittadini del posto rendendo ancora più difficile anche il solo ragionare di accoglienza. Alcune istituzioni locali hanno cercato di intervenire, ma servivano provvedimenti non solo legislativi dal governo centrale. Perché per esempio non si è intervenuto per velocizzare il rilascio di documenti di soggiorno ai braccianti immigrati mettendoli in condizione di scegliere il da farsi a testa alta? Non solo non costava nulla, ma avrebbe anche portato entrate e garantito le declamate esigenze di sicurezza».
Insomma, una “stabile emergenzialità”. È cambiata, rispetto a tre anni fa, la sistemazione dei migranti (ieri le vecchie fabbriche oggi la tendopoli), si rincorrono le voci di finanziamento all’accoglienza, di progetti, di interventi che ad oggi non si sono visti e aumenta il numero di ettari abbandonati e non più coltivati. Pugliese, Africalabria, i tanti volontari, i lavoratori, la società civile del territorio non si rassegnano, ma sanno perfettamente che soltanto attraverso cambiamenti che riguardano l’intero Paese, forse l’Europa, potrà realmente rompersi questo meccanismo perverso. Un sistema di rapporti che tiene sotto scacco tanto i lavoratori autoctoni quanto i migranti, che non riescono neanche a unire le proprie forze. «Quello che riusciamo a fare per ora sono i gruppi di acquisto solidale, per acquistare i prodotti direttamente dal produttore a un prezzo maggiore, garantendo maggiori compensi ai lavoratori. Con questo meccanismo garantiamo cinque posti di lavoro a quaranta euro al giorno. Nei corsi di italiano e di formazione sui diritti che teniamo, cerchiamo di insegnare anche piccoli trucchi per consentire a chi lavora di poter dimostrare l’esistenza di rapporti di lavoro al nero. Cerchiamo di aiutare i ragazzi a dotarsi di biciclette per andare al lavoro e di avere le luci per non rischiare di essere travolti nelle strade buie. Certo è poco ma almeno qualcosa di concreto si fa – conclude Pugliese –, chi è andato a lavorare in altre province si è trovato anche peggio e bisogna continuare a lottare perché questa terra, la gente che ci vive e quella che ci lavora, va difesa, lo merita. C’è chi ancora prevede nuove tensioni e scontri, forse se le augura ed esalta ogni piccolo incidente. Ma qui si sta cercando anche di costruire». (stefano galieni)