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Dark was the ground, and cold the night… Per raccontare quel che l’altro ieri è successo a via Cinquevie nel campo rom tra Afragola e Caivano c’è bisogno di un momento di onestà. Bisogna guardarsi dai percorsi obbligati verso cui i pensieri guidano le folle spaventate, bisogna imporsi lucidità, fredda ragione, empatia, memoria accurata, sguardo d’insieme. Antidoti al terrore, subito e inferto. L’unico modo che a me viene per raccontare i fatti di ieri, è questo.
Ore 18.56 – Davanti alla chiesa San Paolo apostolo al Parco Verde di Caivano stazionano sei o sette automobili. Capannelli di persone venute da Marcianise, Acerra, Afragola, Pomigliano, si aggiornano e consultano, mettono insieme i fogli con le firme raccolte da ognuno in vista della denuncia del Coordinamento comitati fuochi contro le istituzioni locali e regionali per omissione di controllo e protezione. L’aria è tersa, non troppo calda, nuvole bianche immobili in lontananza, nessun fuoco all’orizzonte. Ci muoviamo; il serpente di macchine taglia le budella di Caivano, sorpassa apecar stracolmi di frutta, venditori di cascette di spighe, chili di cozze, meloni d’acqua e di pane. Motorini ci girano intorno, i vecchi e i giovani guardano lo strano corteo, immobili, come di pietra. Finito il paese, iniziano terre e assi mediani, saliscendi d’asfalto che lambiscono sentieri poderali. L’erba alta degli sterpi, gli alberi floridi, la legna secca, il grumo di buste ogni due pietre. Una svolta improvvisa, e siamo dentro al campo rom di via Cinquevie.
Ore 19.25 Altri sono arrivati prima di noi. Siamo una quarantina, professionisti, madri di famiglia, cattolici, ragazzi, un prete, giornalisti. Questi gli estranei al campo. Le case dei rom: container di coibentato che ricordano quelli distribuiti nel post-terremoto, finestre con tende, allaccio elettrico che alimenta televisori accesi, interni arredati alla maniera sovraccarica, floreale e colorata di un est perduto o mai esistito. Tra i container, in uno spiazzo verde nel cuore del campo, un giardino curato, rose, qualche insalata, zucchine e alberelli. Chi vive qui: trenta famiglie, centocinquanta persone, tanti bambini, tantissimi giovani sotto i trent’anni, cinque anziani, di cui due con la maglietta della fatica, “recupero ferro e materiali di risulta”, donne, in gruppo, e un’anziana seduta come regina a guardare l’improvvisata assemblea. Il campo è circondato da un muro; sotto il muro resti di molte e diverse cose. Una macchina smontata, pezzi di motore, frigorifero moderno e spento, griglie per cucinare saldate con perizia da qualcuno del campo, tempo fa. Gli ospiti si guardano in giro, c’è chi azzarda una passeggiata, non parlano con i rom, solo qualcuno scambia battute, altri pensano di non essere capiti, altri ancora non vogliono capire ma farsi sentire. Un signore con occhiali e capelli ricci convoca l’assemblea vicino a una vite intrecciata in una pensilina; cerchio irregolare, mamme caivanesi, afragolesi, acerrane, arzanesi, si stringono intorno al prete, uomini mani dietro la schiena, folto gruppo di ragazzi rom che osserva la scena discosto, al centro del cerchio tre anziani del campo, gambe larghe e mani sui fianchi, più in là le donne, mescolati a tutti due cani e tanti bambini.
Ore 20.01 L’assemblea entra nel vivo. Il rappresentante del Coordinamento e degli ospiti ci tiene precisare prima di tutto che il gruppo è venuto qui per cercare una cooperazione con i rom, è venuto per metterli al corrente della denuncia alle istituzioni e della raccolta firme, che questo è un problema di tutti, che anche i vostri figli rischiano di ammalarsi. Si fanno poi strada, per bocca del prete e di alcune donne, pensieri aleggianti condivisi da molti, Anche voi dovete smetterla di bruciare, sappiamo che fondete la gomma dei cavi per prendere il rame, e che vedete nei campi i camion della camorra a scaricare, perché non denunciate? Gli anziani rom negano, non conoscono quelli che bruciano, ciò avviene fuori dal campo e loro non possono controllare, non possono denunciare alla polizia che non li ascolta, hanno già fatto una riunione interna per accordarsi a sanzionare chi di loro l’ha fatto, una due volte, roba da niente, e loro a lavorare lavorano, raccolgono ferro e si spaccano la schiena. I nostri problemi sono tanti, cinque volte abbiamo chiesto udienza al sindaco di Caivano per avere dei cassonetti di rifiuti fuori dal campo, per avere uno scuolabus che venga a prendere i nostri bambini, per farci trovare un lavoro, ma non ci ha mai ricevuti. Gli animi si scaldano da un lato, alcuni ospiti non ne vogliono sapere dei problemi del campo, bisogna smettere di bruciare e basta, e i rom fanno fatica a contenere, a seguire le parole difficili, a spiegare che sono in tanti fuori dal campo a bruciare. E i ragazzi rom ridacchiano, osservano i borghesi venuti al loro campo, non si scuciono, sanno che tra un po’ se ne andranno loro e arriveranno i guai.
Ore 20.30 Il prete mentre parla ha lo sguardo rapito da una colonna di fumo che emerge da una casa in costruzione abbandonata, cinquanta metri fuori dal campo. Cos’è questo fumo? Tutti si voltano. È bianco-grigio, come spuma di mare inquinato, si gonfia lento mosso dalla brezza. È un attimo, e il gruppo si dirige al luogo poco lontano. Dietro un muro di cinta, la casa sequestrata alla moglie del boss dei Moccia, noti padroni di Afragola, è da chissà quanto un deposito murato di rifiuti, tossici, industriali, urbani, senza nome e definizione. Sotto la casa, da buchi nel cemento, è da lì che il fumo emerge come da camera magmatica. Qualcosa brucia da tempo immemorabile, le nostre vite passate e scartate e poi gestite da chi non si fa tanti scrupoli a liberarci dai nostri residui industriali bruciandoli. Ma ci sono anche cavi, guarda!, gomme disciolte in masse informi, rame sparso, sono loro, sono i rom, ecco la prova! Nessuna giustificazione che tenga ora per gli anziani rom, hai voglia a dire che là tanta gente ci va a bruciare, che questa è terra di proprietà dei Moccia, che loro possono assicurare che il novantanove per cento di loro non bruciano per il rame, per vivere morendo, che lo sanno bene il male che arriva silenzioso e che poi nemmeno i nostri ospedali li salvano. La voce gira in fretta, questo piccolo inceneritore illegale è la causa della puzza, della diossina, dei roghi rossi che al tramonto si confondono con il sole calante sulle campagne, finché il cielo diventa tutto nero e la notte ingoia il fumo tossico. Ora che c’è qualcosa a cui attaccarsi, qualcuno da blandire, ora che il bruciare e il bruciatore sono qui davanti, alcuni ospiti nel campo vedono i rom per quel che vogliono vedere: pezzenti che ci avvelenano, che si vendono alla camorra, figli di dio si, ma che meritano la galera, perché va bene che sono poveri ma i nostri poveri questo non lo fanno. La gente ora è sparsa, si parla di più e da vicino tra rom e abitanti dei paesi. Alcuni del Coordinamento ci tengono a non far degenerare la situazione in un’accusa che si tinge di razzismo; dei ragazzi di qui mi parlano dei Moccia, del beneplacito che gli hanno concesso per vivere su questa terra e del controllo totale che hanno del territorio. La luce scema tingendo il cielo di poche stelle, offuscate però dal fumo tossico che s’ingrossa sempre più.
Ore 22.30 È arrivata un’autobotte dei pompieri, seguita poco dopo da una volante della polizia e due dei carabinieri. Presidiano il rogo i pompieri, le forze dell’ordine discutono con i rappresentanti dei comitati. I rom si ritirano nel campo, nelle case, non parlano con la polizia. La gente vuole controlli, vuole relazioni scritte che finiscano sulle scrivanie di prefetti e ministri, vuole che si fermi questo scempio. Un agente ha una battuta poco felice, i nervi sono tesi, e basta poco per prendersela anche con lui. Telecamere e macchine fotografiche hanno documentato tutto. Domani riempiranno i giornali, ingolferanno la rete, le immagini della casa-fornce, dell’inceneritore illegale, inferno di monnezza che brucia. Sotto gli occhi di tutti per un giorno, quella casa che brucia da una vita, questi rom che non raccontano la verità, questa gente agguerrita, affranta, incazzata, ci si sfogherà credendo che qualcosa si muove, perché dei roghi e dei rom ora ne parlano tutti i giornali, e domani controlleranno, e una buona volta abbiamo dimostrato che con la mobilitazione qualcosa si ottiene. Vado via che ancora c’è chi litiga con i carabinieri. Le uniche luci nella notte sono quelle blu, lampeggianti, e poco lontano le case degli zingari. Saluto un ragazzo rom che s’è lasciato andare, e ci siamo raccontati. Domani va a faticare, a trovare il ferro per rivenderlo a venti centesimi al chilo.
Vedere un gruppo variegato di abitanti dai paesi tra Napoli e Caserta andare in visita a un campo rom non lontano dalle loro case è una salutare rottura con la quotidiana indifferenza e ostilità che si respira da queste parti, e in tutta Italia, quando ci sono rom nei paraggi. Il problema sono i roghi, e nessuno nel suo intimo nasconde la certezza che anche i rom partecipino agli incendi illegali. Ma la volontà espressa dai comitati con larghi giri di parole è di cooperare: voi smettete di bruciare e iniziate a controllare e denunciare, e noi vi guarderemo meno peggio di prima. Tra le righe la minaccia realistica che se si rifiutano verranno mandati via, arriverà l’esercito a presidiare e per loro non ci sarà più spazio alle periferie dei paesi. Esiste un rischio in questo atteggiamento che va considerato. Che gli ultimi, gli abitanti dei paesi costretti a respirare da decenni fumi venefici, vadano dagli ultimi degli ultimi, i rom che vivono anche di roghi per ricavare rame, è un atto dalle numerose implicazioni. Ogni volta che una comunità assediata non ha potere sugli eventi, e rivolge allora la rabbia verso una categoria sociale più debole e marginale, ci si può trasformare da vittime in carnefici. E nel caso dei roghi tossici, ciò conduce anche a perdere di vista la realtà.
È pretestuoso affermare che il problema sono i rom, quando nella nostra regione, da decenni, sono state interrate, abbandonate e bruciate, tonnellate di rifiuti per opera di mafie locali, talvolta con il beneplacito di imprenditori e politici conosciuti. Perché non andare a casa di questi notissimi imprenditori, a richiedere civilmente la fine delle loro illecite attività? Perché non affrontare faccia a faccia i casalesi, i Moccia, i Pellini, famiglie che tutti sanno dove abitano, che hanno fatturato milioni di euro con il traffico di rifiuti tossici, e invece andare a muso duro dai rom che sciolgono la gomma di qualche chilo di fili di rame? Non si tratta di giustificarli, e di certo l’ala più moderata e consapevole del gruppo riunitosi al campo di Cinquevie è riuscita a stimolare gli stessi rom alla cooperazione, perché è questo che conta. Ma c’è qualcuno, dalle colonne di tutti i maggiori quotidiani campani, che si è oggi domandato in quali condizioni d’esistenza i rom scelgono di andare a bruciare, o di bruciare per altri al prezzo di qualche spicciolo? Se l’è domandato lo stesso prete, così solerte a difendere la sua comunità, ma che non vuole vedere la mancanza di servizi nel campo e la quotidiana discriminazione? Stiamo parlando di cooperazione, o di ordini? Sono i rom che producono le balle di pellame, i resti di lavori edilizi, i pannelli di amianto, i rifiuti ospedalieri, i fusti di materiale chimico, che giornalmente vanno in fiamme o interrati nei nostri campi? No. Sono le aziende in nero, gestite dai clan o da qualche furbo imprenditore, in ogni caso “locali”, che per non pagare un costoso smaltimento in regola hanno inventato due decenni fa queste modalità, trovando terreno fertile per i rifiuti in quelle campagne abbandonate dall’agricoltura, in profonda crisi economica e d’identità. E ciò ci conduce a riflettere sul nostro stile di vita, che ha fatto di ogni casa una centrale di produzione di rifiuti costante, che richiede sempre più materia trasformata e sempre più materia getta via. Ma andremmo troppo lontano, così lontano che attivisti e cittadini sarebbero costretti a vedere loro stessi riflessi nello specchio della nostra distruzione. Meglio arrivare a vedere solo una casa in campagna, in cui i rifiuti bruciano da sempre, e sbatterla, insieme con i mostri, in prima pagina. (salvatore de rosa)