Il peggio veniva la sera e non per Augusto. Prima di andare a letto, sua moglie provava a portare a termine l’incredibile lavoro che era diventato vivere una giornata normale, con lui perduto nel micromondo della camera da letto, preoccupato da rituali spontanei per tutti, meno che per la sua mente devastata. Veniva da Finale Emilia, Augusto, e se fosse ancora vivo non avrebbero cambiato quel suo sguardo perplesso e distante, le immagini del sisma emiliano. Le avrebbe guardate come ogni altra cosa, dal suo esilio chiamato Alzheimer.
«Augù, non fare come ieri che hai bagnato tutto il letto, vogliamo fare la pipì?». «Non so, sono questioni importanti, queste. Chiedi ai tuoi, dobbiamo parlarne anche con loro…». Andavano così, le discussioni più semplici, con una persistenza in grado di fiaccare qualsiasi tenacia. Una mattina, svegliatosi di buon umore, sua moglie provava a portarlo in bagno quando si sentì rispondere: «La ringrazio, signora, è stata davvero una notte bellissima ma sa, adesso devo tornare a casa mia…». Quello che fa la malattia di Alzheimer alle sue vittime è visibile a tutti, il dolore che arreca ai familiari logorando affetti e legami è un territorio bombardato che forse solo chi abita può capire davvero.
Augusto era arrivato a Giugliano decenni prima, una vita senza eccessi da impiegato e marito devoto e soddisfatto, prima che il male rendesse la sua materia grigia un groviglio di informazioni errate, frasi e concetti spezzati. Un cervello in frantumi come un servizio di piatti dopo una lite familiare. Non l’aveva mai nominata troppo Finale, fino all’avvento della malattia che aveva riportato a galla i luoghi della giovinezza. «All’improvviso, un giorno tornando a casa si perse, e poi non ha funzionato niente più…», racconta sua moglie. Senza preavviso, il suo cervello pieno di sostanze nocive come una discarica aveva fatto tilt e lo avevano ritrovato lontano da casa, sperduto e perplesso. Comincia così, quel lento sfiorire che si chiama Alzheimer, sintomi sparsi e improvvisi come perdersi nelle strade del proprio paese.
«Come sta?». «È sempre lo stesso – ma chi mi ha portato qui?». «Dove si trova qui?». «Al momento; provvisoriamente come ho detto – non so neanch’io – non so proprio niente – oh, Dio mio, ma cosa significa?». Gli interrogatori del dottor Lois Alzheimer ad Auguste Dieter, prima ammalata con diagnosi di “malattia di Alzheimer”, già nel 1901 fornivano un quadro chiarissimo di quell’orrore gelido in cui si dibatte una mente colpita dal male. Smarrimento, confusione, un persistente e sotterraneo stato di paura che scorre sotto le emozioni come un fiume carsico. Colpisce osservare le similitudini dei dialoghi fra il neuropsichiatra tedesco e la sua paziente con quelli di un qualsiasi ammalato dei giorni nostri. Così come fa paura guardare gli occhi di Auguste in una foto dell’epoca e notare la stessa espressione smarrita di Augusto.
Alcuni diventano aggressivi, pie casalinghe dopo una vita di parrocchia passano la giornata bestemmiando madonne e santi, tranquilli impiegati rincorrono le ragazzine al parco spinti da impulsi sessuali incontenibili. Augusto era spesso di umore bonario, anche quando sfuggiva alla ronda tedesca nascosto dietro le tende di casa, attentando alle coronarie di sua moglie quando sbucava all’improvviso intimandole di nascondersi. Più di trenta milioni di ammalati nel mondo, una persona su ottantacinque ne sarà affetta nel 2050. Un esercito di esiliati cui dovranno far fronte la spesa sociale (circa seicento milioni di dollari l’anno al momento) e la spesa emotiva di milioni di persone. È nel 1981, quando i medici diagnosticano la malattia a Rita Hayworth, che il morbo di Alzheimer fa breccia nella pubblica opinione. Il congedo di Reagan dalla vita pubblica per lo stesso motivo, qualche anno dopo fa il resto. Milioni di famiglie alle prese con i propri irriconoscibili cari trovano cittadinanza nella pubblica informazione, portando alla luce decenni di lotte sotterranee contro l’accumulo cerebrale di placche amiloidi e ammassi neurofibrillari, osservati dal neurologo di Marktbreit già all’inizio del Novecento. Oggi, mentre l’aspettativa di vita dei paesi industrializzati è quasi raddoppiata, è un esercito quello delle menti sconvolte da quelle stesse placche e il secolo che si era aperto con i ragazzi vestiti a lutto che cantavano Giovinezza si è chiuso con la vecchiaia come età dominante, con tutti i suoi drammi.
Dentro la loro incoscienza, al riparo dai temi economici e dalla spending review, questi vecchi corpi dallo sguardo sempre lontano vivono un’esistenza indecifrabile, legati a oggetti e pensieri affioranti da chissà quale pozzo artesiano della psiche. Lontani dal mondo eppure ancora presenti, come Augusto che aspettava i nazisti dietro il divano di casa, Lucia che vuole sempre con sé le sue bambole da pettinare o Carmelina, novantenne che chiama ossessivamente la mamma dal fondo del suo pozzo nero. In mezzo i loro parenti e l’assenza di politiche concrete di sostegno, per cui gli ammalati restano a casa, mettendo a dura prova la tenuta delle famiglie o passano i loro giorni in centri di assistenza coi tavolini in formica e il vuoto terribile dei giorni. Su tutto questo, il tessuto connettivo della paura. Dei parenti, che gravitano come satelliti attratti dal magnetismo di questo sentimento persistente, degli estranei che dopo aver incrociato uno sguardo come quello di Auguste difficilmente rimangono indifferenti. Poi c’è la paura degli ammalati, smarriti in un mondo di cui non riconoscono le coordinate e che si spengono appassendo negli anni o fanno come Augusto che una mattina di maggio ha deciso di trovare una soluzione all’accerchiamento dentro cui resisteva da decenni. Sbucato fuori dal nascondiglio dietro il divano di velluto, è andato verso la finestra aprendola di scatto. I tedeschi di merda non lo avrebbero preso. Poi è volato giù in un attimo, verso chissà quali gorghi muti. (antonio bove)