È nei dettagli che si percepisce a pieno il valore di Lousiana (The other side), documentario presentato a Cannes nella sezione Un Certain Regard e ultimo lavoro di Roberto Minervini, regista italiano trapiantato nel sud degli Stati Uniti. Dettagli che appaiono attraverso le immagini di una telecamera intenta a seguire istintivamente la vita dei suoi protagonisti, così come apparirebbero all’occhio muto di chi si ritrova in mezzo a loro senza eccepire.
Sguardo in ascolto. Come i tatuaggi di Mark, il protagonista della prima parte del film, le immagini s’incidono nella mente, sono forti, a tratti crude, mai stucchevoli. Restano impresse. Il senso di disgusto di chi distoglie lo sguardo da certe scene induce a riflettere sul significato politico di questo documentario, un significato che non ha bisogno di ulteriori parole. A un certo punto, in un salotto, mentre fumano da una pipa di vetro, Mark raccomanda al figlio obeso e silenzioso di sua sorella di non leccarsi il dito in quel modo qualora dovesse ritrovarsi in carcere: un altro dettaglio, stavolta letterario, che costringe all’immersione totale dentro un microcosmo emarginato in un territorio della provincia americana. La preparazione della siringa e poi l’ago che piano entra nella vena di una spogliarellista incinta, in un camerino tappezzato di immagini di donne nude: Lousiana è la rappresentazione di un malessere condiviso, diffuso, reale in un paese reale. Non contrapposizione tra centro e periferia mentale di una comunità fuori controllo. Non sogno – americano – infranto, né incubo senza via d’uscita. È ciò che accade ogni giorno, in una nazione. E chi lo mostra agisce senza pregiudizi morali, senza vittimizzare – altrimenti il risultato finale sarebbe stato di tutt’altra natura.
Il pianto dell’alcolista che lacrima ogni qualvolta legge i versi di una bambina scritti su un foglio appeso al frigorifero, le discussioni su Hilary Clinton intorno a una bottiglia, l’amore come unico anestetico possibile, l’autodistruzione come giudizio sullo stato delle cose, come risposta a una condizione di abbandono. In Lousiana si percepisce vagamente qualcosa di simile al mondo squallido degli alcolizzati mostrato in On the Bowery, documentario di Lionel Rogosin. Mentre scorrevano le immagini mi è sembrato di vederci una continuità e un dialogo con quel capolavoro del ‘56. Due film concepiti in spazi e tempi lontani, ma due film in qualche modo paralleli: entrambi oscillano in maniera magistrale tra il documentario e la finzione, senza forzature, con estrema naturalezza, seguendo i personaggi, rappresentando i luoghi e la gente, standogli a fianco, di fronte. Come una sorta di autonarrazione continua, entrambi offrono un ritratto inequivocabile dell’America. Il margine urbano e quello della provincia rurale, gli altri lati della stessa medaglia, di ieri e di oggi. Da un lato un quartiere di New York abitato da derelitti (un quartiere oggi gentrificato, immagino); dall’altro il sud degli Stati Uniti. Nel Bowery di Rogosin ci sono gli alcolizzati, gli scarti e la manodopera industriale di riserva situata nell’epicentro di una ricchezza in espansione, il bianco e nero dei bar affollati e dei volti sfiancati nel pieno dell’età dell’oro del capitalismo, “gli anni gloriosi”. In Lousiana abbiamo l’odierno, l’esito di una parabola. All’alcol si aggiungono le metanfetamine e lo stato di guerra permanente di chi è pronto ad affrontare un nemico senza volto che si aggira nelle loro vite assurde.
Tossici e paramilitari. Alcuni di quei volti mi hanno ricordato gli stessi immortalati da Rogosin ma anche alcuni ritratti di Walker Evans in tempo di grande depressione, quando insieme a James Agee andò in Alabama a conoscere le condizioni di miseria in cui vivevano i contadini fittavoli del sud. Tempi e modalità diversi, paragoni azzardati, forse. Tuttavia queste opere ci parlano in maniera differente di solitudine. L’autore di Louisiana trasforma la narrazione di uno spaccato sociale tenendo lo sguardo bene ancorato sul presente. I protagonisti del documentario vivono nonostante tutto, si preparano al peggio e sparano al simbolo – o al fantoccio – del potere. Mark piange in silenzio al pensiero della morte di sua madre, preferisce scontare la pena in carcere pur di smettere di farsi. Lousiana non è solo un film sul dolore e la miseria. È un film sulla frustrazione e la rabbia nei confronti del mondo. A modo suo è anche un film d’amore, che getta allo stesso tempo una luce sulla condizione di un gruppo di individui in un angolo di America disillusa e senza troppa speranza, accerchiata da una natura in cui ci s’immerge prima di scomparire. (andrea bottalico)