È in libreria a Napoli, e nel corso della prossima settimana anche a Torino, Milano, Bologna, Roma, e Palermo, il nuovo numero (n.6, aprile 2021) de Lo stato delle città.
Pubblichiamo dalla rivista l’articolo Stato d’emergenza di Riccardo Rosa.
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C’è un video che ha girato molto sul web, nelle ultime settimane. Si vede una macchina grigia che percorre un viale e viene fermata da una ventina di nordafricani con delle bandiere rosse. Gli uomini battono le mani, fischiano, poi estraggono di peso un uomo dalla vettura e lo portano in trionfo, prendendolo sulle spalle al grido di: «Arafat libero!» e «Viva la classe operaia!».
I nordafricani sono appunto operai, per lo più facchini dello stabilimento FedEx-Tnt di Piacenza. Le bandiere rosse sono quelle del sindacato SiCobas. L’uomo è Mohamed Arafat, operaio e sindacalista, arrestato lo scorso marzo a Piacenza insieme al collega Carlo Pallavicini, entrambi indagati, con altri ventisette compagni, per resistenza aggravata, lesioni personali aggravate, violenza privata e occupazione di suolo pubblico. Mentre scrivo, Pallavicini e Arafat hanno visto revocate dal tribunale le misure cautelari (restano indagati a piede libero), ma l’impianto accusatorio resta in piedi. Prima del ricorso vinto dai legali, oltre alla misura domiciliare per i due coordinatori provinciali, considerati “leader” delle proteste nel magazzino piacentino, i giudici avevano disposto il divieto di dimora per cinque operai egiziani nella città emiliana (poi sostituito con l’obbligo di firma), mentre il rischio per altri sei operai è quello di revoca del permesso di soggiorno e del rimpatrio.
I provvedimenti di Piacenza sono arrivati dopo scioperi e proteste soprattutto contro le condizioni con cui sindacati confederali e associazioni padronali si apprestano a rinnovare il contratto nazionale del settore Trasporto merci, spedizioni e logistica (scaduto dal dicembre 2019 e che rischia, nella nuova versione, di cancellare buona parte delle conquiste operaie degli ultimi dieci anni). I facchini della logistica sono stati tra i più attivi nell’ultimo anno, con rivendicazioni che vanno dalla sicurezza rispetto al rischio pandemico alla lotta contro licenziamenti e cassa integrazione. La risposta delle aziende è stata dura, con decine di provvedimenti disciplinari e il ricorso a guardie private che durante i picchetti aggredivano i lavoratori. Da parte sua, lo stato è pronto a partire con procedimenti giudiziari e processi in diverse città – solo a Modena ce ne sarebbero almeno quattro. Da questo punto di vista, sebbene la scure sia calata con più violenza sulle lotte operaie (non va dimenticato che in molti settori, a cominciare dalla logistica, la produzione non si è mai fermata in questi dodici mesi), tutti i soggetti che hanno messo in discussione la gestione dell’emergenza sanitaria, stanno subendo un attacco che si vuole mostrare come esemplare.
Tra l’8 e il 10 marzo 2020 morivano nelle carceri italiane quattordici detenuti, ufficialmente a causa di un’ingestione di farmaci trafugati nel corso delle rivolte scoppiate in diverse prigioni per protestare contro la scellerata gestione della pandemia nei penitenziari. In realtà, su quasi tutte quelle morti ci sono delle ombre, che si nascondono dietro la fortissima repressione avvenuta in quei giorni da parte della polizia non solo penitenziaria, entrata in alcune circostanze in massa nelle sezioni, mettendo in atto una vera e propria mattanza nei confronti di chi aveva protestato. A distanza di un anno, se i processi per i detenuti che si erano sollevati sono in corso in molte città, quelli per i poliziotti che li hanno picchiati e torturati – talvolta ripresi dalle telecamere di sorveglianza – sono fermi (in alcuni casi sono già arrivate le archiviazioni). A dispetto del clamore che alcune inchieste giornalistiche hanno suscitato, i detenuti lamentano un forte timore a esporsi proprio a causa degli esiti giudiziari relativi a questi episodi.
Nell’ottobre 2020 a Napoli, dopo l’annuncio da parte del presidente regionale di una zona rossa senza alcun preavviso, una manifestazione di ristoratori e commercianti, cui si uniscono gruppi eterogenei, dai centri sociali agli ultras fino agli ambienti di estrema destra, si conclude davanti alla sede regionale di Santa Lucia con scontri e tafferugli con le forze dell’ordine. Giornalisti e politici denunciano un’inedita alleanza di estremisti di destra e sinistra collusi con la camorra. In realtà, l’improvvisazione sembra essere la caratteristica principale della protesta, il livello di premeditazione molto basso, le conseguenze sull’ordine pubblico dopo l’esplosione di rabbia poco rilevanti. Ma la “rivolta di Santa Lucia” è occasione ghiotta per mostrare il pugno duro, prima con una stretta sui territori (a cominciare dall’aumento dei militari in strada) e poi da un punto di vista giudiziario. Sull’inchiesta in corso ci sono solo indiscrezioni, ma sotto processo potrebbero finire una serie di soggetti con accuse pesantissime. Per la prima volta in Italia, l’ipotesi sarebbe quella di devastazione e saccheggio con aggravante del metodo mafioso e della finalità eversiva. In sostanza, tutti i “cattivi” messi insieme, pene altissime e lezione da ricordare per chi solo prendesse in considerazione l’ipotesi del conflitto sociale.
In questo calderone, infatti, rientra anche la repressione ordinaria nei confronti di tutte quelle realtà che da tempo alzano l’asticella dell’antagonismo e che in questi mesi ricevono batoste difficili da assorbire. Degli operai si è parlato, ma alla lista vanno aggiunti i NoTav della Val di Susa (tredici recenti provvedimenti restrittivi), i portuali di Genova, gli antimilitaristi contro le basi Nato in Sardegna, gli anarchici trentini e i solidali ai migranti di Trieste, fino ai disoccupati napoletani che si sono visti recapitare provvedimenti giudiziari persino per avere acceso fumogeni “pericolosi per l’incolumità altrui” durante i cortei.
Ma nel contesto pandemico è in corso un processo ancora più insidioso e pervasivo. La legislazione d’emergenza, la militarizzazione della campagna vaccinale, l’espansione di strumenti di controllo e valutazione nella scuola e nell’università, accanto alla crescente discrezionalità lasciata alle forze dell’ordine, hanno allargato a dismisura, nell’arco di pochissimo tempo, il raggio d’azione e il novero dei soggetti colpiti. La possibilità di una misura punitiva, di un fermo, di un controllo dei documenti è diventata da un giorno all’altro un’esperienza di massa. Si applicano sanzioni in taluni casi mirate (come dimostrano le multe recapitate ai militanti torinesi in questi mesi, non notificate nel corso d’un corteo, ma inviate per posta dalla polizia stradale su segnalazione della Digos), in altri casi accidentali, rivolte al primo malcapitato che viola un coprifuoco o un confine tra aree dai colori diversi. Queste pratiche di coercizione e controllo, spettacolarizzate dai media tradizionali e amplificate dai social media, mostrano che la repressione di lavoratori e dissidenti è un sottoinsieme concreto e doloroso di una condizione più generale, esistenziale, dove ciascuno sa che può essere interpellato per strada perché non indossa la mascherina.
Di questo scenario, destinato a permanere ben oltre la pandemia, bisognerà tenere conto. Da un lato, in questi mesi sono nate esperienze che provano a contrapporre a una gestione così autoritaria del quotidiano delle risposte organizzate: a Napoli facchini e disoccupati stanno costruendo una rete di reciproco appoggio; a Modena è nato un comitato per chiedere “verità e giustizia” per le morti nel carcere di Sant’Anna; sul fronte scuola, le cellule locali contro le chiusure e la didattica a distanza si coordinano a livello nazionale fin dalla primavera scorsa. Dall’altro lato, la connessione generale tra le lotte è ancora molto debole, considerando che il numero degli “esposti”, dei fragili, dei precari va aumentando a dismisura. Se l’isolamento dei soggetti colpiti era stato negli anni precedenti il risultato più evidente della repressione, questa nuova tragica dimensione potrebbe generare inedite interlocuzioni, confronti e alleanze. È il momento in cui tutto, o niente, può succedere.
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