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25 Giugno 2019

Torino, la resistenza infinita di via Borgo Dora

Francesco Migliaccio
(disegno di valentina galluccio)
(disegno di valentina galluccio)

«Devi scrivere l’articolo, eh. Il mio nome? Metti Ali, anche l’altra volta hai messo Ali? No? Mi avevi chiamato Moustafa? Va bene così allora». Nel piccolo alloggio di via Borgo Dora 39, Moustafa incarta piatti, tazzine, un tajine. Intorno ci sono scatoloni di vestiti, suppellettili, ricordi ammassati; e un disordine di caffettiere, giornali, buste rotte. «Il frigo lo lasciamo qui, funziona solo la parte di sotto». Gli chiedo se davvero ha deciso di andarsene. «Restiamo qui, noi resistiamo nella casa. Non ce ne andiamo, non scherzare. Però voglio mettere al sicuro le mie cose, se arrivano con la polizia poi non hai tempo di raccogliere e portare via. Adesso io sposto tutto per essere più tranquillo».

Gli abitanti di questo palazzo hanno ricevuto la prima intimazione di sfratto nel 2015. Un imprenditore aveva comprato l’intero palazzo per una cifra modesta – inferiore al mezzo milione di euro – e aveva denunciato gli abitanti per morosità. Alcuni se ne andarono, altri sono rimasti, altri ancora sono arrivati. «Le nuove famiglie – dice Moustafa – sono arrivate nel 2015 e si sono messe negli appartamenti lasciati liberi dagli altri. Sono misti: nigeriani, marocchini, ci sono bambini che vanno a scuola, un uomo che vende al Balon. Il palazzo due anni fa è stato occupato dagli anarchici, loro hanno sistemato gli appartamenti, hanno portato i mobili, tavoli, sedie. Hanno aiutato tanta gente, hanno fatto dei lavori nei muri, nei bagni». Il secondo martedì di giugno è scaduta una proroga di sei mesi e il nuovo avviso dell’esecutore giudiziario concedeva solo una settimana di permanenza. Martedì scorso la data dello sfratto è stata posticipata ancora al 27 giugno. «In queste settimane dobbiamo resistere e basta». Perché, dopo quattro anni di quiete apparente, il proprietario ha accelerato i tempi dello sfratto?

Apprendisti stregoni

Il 20 giugno, e con notevole tempismo, una pagina di Libero titola: “Nessuno sgombera la casa per paura della strega”. Secondo il giornalista erano previsti la “ristrutturazione dello stabile” e “uno sgombero dolce”, ma i sortilegi della maga avrebbero “bloccato” ogni iniziativa. L’articolo esplora le scienze occulte d’un Oriente immaginato: “Wonda, la strega, è maestra in usum al gayb, un insieme di scienze occulte che comprendono la divinazione, l’astrologia e l’oniromanzia”. Le arti oscure avrebbero intimorito anche i “comitati di quartiere”, ma il giornalista evoca un intervento salvifico: “Il crocefisso di Salvini agitato in via Borgo Dora è l’ultima e forse l’unica arma che lo Stato può brandire”.

L’articolo mescola luoghi comuni, provocazioni astiose, ironie sciocche, eppure ha una funzione chiara e velenosa: attirare l’attenzione sul palazzo, inventare proposte di ristrutturazione, trasformare gli abitanti in figure senza spessore, e folcloriche. Si dissoda il terreno simbolico prima dello sgombero: l’articolo è stato commentato, e con i medesimi toni, su Radio 24; in un caldo e deserto mattino un avvoltoio s’aggirava nel borgo, aveva il microfono de La vita in diretta.

Le ragioni di un’annosa resistenza allo sfratto sono più complesse. Gli abitanti, e Moustafa per primo, sono stati abili a rivolgersi ai giornali, ai movimenti, agli accademici e anche alle istituzioni. Una volta Guido Montanari, assessore all’urbanistica e vice-sindaco, concesse una vana udienza: «Montanari non ci ha dato nessuna soluzione – dice Moustafa –. Lui non poteva fare nulla. Ci ha chiesto se siamo cittadini italiani. Per il voto, no? Se diciamo che siamo cittadini italiani, ci dà la sistemazione subito secondo me». Nel tempo hanno ispirato articoli critici, analisi sociologiche, picchetti e occupazioni, assemblee di quartiere e dibattiti in accademia. «Monsieur François, facciamo così, chiediamo agli anarchici e all’Askatasuna di occupare insieme il palazzo; così siamo più forti, no?», mi disse un giorno Moustafa. Osservo con attenzione le mosse degli abitanti: non rispettano uno schema, ma compongono un collage di pratiche e di tradizioni ideologiche, anche in contraddizione tra loro. Estranei forse alla nostra storia, ne utilizzano i frammenti per giustapposizione.

L’imprenditore, inoltre, ha commesso degli errori. Al tempo del processo per morosità dimenticò due contratti stipulati con il proprietario precedente. Nel palazzo abitano tredici famiglie. Sette avevano il contratto di affitto, ma solo cinque hanno avuto il processo. Senza sentenza del tribunale, gli abitanti non possono essere sfrattati e questo ha rallentato lo sgombero. L’imprenditore, sembra, si è accorto dei contratti mancanti pochi mesi fa: «Ha preso in giro le persone – spiega Moustafa –. Gli ha detto: “Vi troviamo una casa bella, vi paghiamo due anni di affitto, portateci il contratto che facciamo lo sfratto e vi diamo la casa subito”. Io ho detto più di dieci volte: non portategli il contratto; ma loro gli hanno dato tutto. Li ha presi in giro, dopo che ha preso i due contratti è sparito. Ora forse ha scoperto che non sono validi, per questo ha cominciato a muoversi subito».

L’articolo di Libero, all’inizio, suggerisce un’informazione che svia. Scrive l’autore che il palazzo è stato comprato nel 2015 dalla società immobiliare “La palazzina”. Un nome vago per una società inesistente. In realtà, per l’acquisto e la gestione dell’immobile è stata fondata una società a responsabilità limitata, la “Borgodora 39”. Secondo l’atto costitutivo la società ha per fine “l’acquisto e la vendita di immobili, la costruzione, la ristrutturazione e manutenzione degli immobili, la locazione dei medesimi, la gestione degli immobili, l’attività di bed & breakfast e affittacamere, nonché di somministrazione di alimenti e bevande”. I soci sono Bartolomeo Manolino e il cognato Antonio Comi, attuale direttore generale del Torino. I Manolino sono storici costruttori e imprenditori immobiliari di Chieri. È interessante notare come la società “Case Manolino Costruzioni”, intestata a Giovanni Manolino, sia fallita nel 2015, mentre la società “Impresa Manolino”, amministrata da Marco e Sergio Manolino, sia fallita nel 2018. Forse le proroghe semestrali di questi anni sono legate alle difficili condizioni economiche della famiglia e, più in generale, del mercato immobiliare. Forse l’operazione di via Borgo Dora è una speculazione per ottenere freschi capitali. Un palazzo comprato per pochi soldi, una volta svuotato, frutterebbe almeno il doppio: questa, davvero, sarebbe la magia evocata da stregoni ben più potenti, e interessati.

L’arma del silenzio

Mentre scrivo la festa della musica ha superato i confini del Quadrilatero e ha abbracciato questo quartiere, dal Mercato Centrale fino alla scuola Holden. Per l’occasione gli antiquari hanno aperto fino a tardi, il selciato è calcato da passanti d’occasione, strimpellate e ritmi vischiosi si sono appiccicati alle finestre del palazzo. L’abitazione è un mondo dentro un sistema: le sue vicende rispecchiano la storia recente di Borgo Dora e i sogni urbanistici. Sui muri scrostati e fatiscenti dello stabile ho intuito, negli anni, che l’onda della riqualificazione non è irresistibile: la disponibilità di capitali è limitata, gli abitanti del palazzo s’ostinano a restare; accanto, gli straccivendoli del Balon violano da ormai sei mesi la delibera di sgombero. «La nostra lotta è di tutto il quartiere, dobbiamo pensare anche alla resistenza dei venditori del Balon e ai ragazzi sgomberati», Moustafa sorride sornione.

Dal 2015 alcuni di noi – ricercatori, solidali, abitanti del quartiere – frequentano gli abitanti di via Borgo Dora 39. Sapevamo delle mosse e degli errori dell’imprenditore, così come eravamo a conoscenza delle istanze fallimentari in tribunale. Ma era necessario tacere perché lo stallo favoriva i residenti. La reticenza, se la ricerca è condotta sul campo e si coordina con chi vive la città, è uno strumento d’azione, il silenzio parte di un metodo. Ora la calma è rotta. Martedì scorso, alle sette del mattino, s’è tenuto un picchetto di fronte al portone. Militanti e solidali, membri dei comitati di quartiere, abitanti di passaggio e mercanti del Balon hanno consumato la colazione, bevuto un tè alla menta insieme agli inquilini. La nostra presenza e vicinanza, soprattutto se eterogenee, potrebbero rallentare ancora gli ingranaggi della riqualificazione. (francesco migliaccio)
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