Sarà presentato mercoledì 10 aprile alle 16.00, all’Istituto di studi sulle società del Mediterraneo (via Guglielmo Sanfelice 8), il libro Ultime notizie dalla terra (Ediesse edizioni), di Antonio Di Gennaro; del volume si discuterà anche venerdì 12 aprile (ore 19.00) alla libreria Verso di Milano, in corso di Porta Ticinese 40. Pubblichiamo a seguire un estratto dal primo capitolo: Un’altra agricoltura.
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Per quanto mi sforzi di vederla diversamente, all’origine del libro resta sempre lo scandalo, la tempesta che si è abbattuta su una regione intera, la sua terra, la sua agricoltura. Una crisi, quella della Terra dei fuochi, che ho dovuto affrontare con gli strumenti del mestiere. Faccio l’agronomo, sono specializzato nello studio e nella cartografia dei suoli. Il mio lavoro è di conoscere e valutare le terre, per capire come proteggerle e coltivarle meglio. Per anni avevo speso tutte le energie a spiegare perché il suolo è importante per il presente di una società, e ancor di più per il suo futuro; i motivi per i quali è urgente trattarlo bene, smettere di consumarlo inseguendo un’urbanizzazione insensata, senza qualità. All’improvviso, proprio quei suoli e quelle terre s’erano trasformati, nel dibattito pubblico, in centri di rischio, portatori di una minaccia subdola, odiosa. Gli strumenti del mestiere sono serviti a ragionare. Per cinque anni ho lavorato, assieme a un plotone di un centinaio di specialisti delle diverse discipline, al progetto comunitario Life-Ecoremed, che ha monitorato lo stato di salute dei suoli della piana campana, mettendo a punto le strategie di cura. Ho collaborato al rapporto governativo sugli effetti sociali ed economici che la crisi ha avuto sul sistema delle aziende agricole. Alla fine, lo schema ferreo raccontato dai media non ha retto: disponiamo ora di una base di migliaia di dati analitici, come non esiste in nessun’altra area agricola d’Europa e l’agricoltura della grande pianura vulcanica è stata scagionata, ma le ferite rimangono. Sarebbe sbagliato pensare che la bufera sia passata. I problemi, le paure che la Terra dei fuochi ha scatenato si riproporranno prima o poi in altre parti d’Italia e d’Europa. Al di là degli aspetti specifici, c’è un luogo comune che si è consolidato e, sullo sfondo, un rapporto di fiducia tra l’opinione pubblica e le attività di produzione agricola che sembra essersi profondamente logorato.
[…] Il volume nasce dalla cucitura e rielaborazione, in un racconto unico, quanto più possibile continuo, degli articoli scritti dal maggio 2015 a gennaio 2018 per l’edizione napoletana di Repubblica, a testimonianza del mio viaggio. Quello che viene fuori, alla fine, è lo straordinario mosaico di ecosistemi e paesaggi rurali di questo pezzo di paese al quale diamo il nome di Campania. Questi paesaggi sono anche macchine ecologiche estremamente complesse, palinsesti di bellezza e biodiversità, ciascuno dotato di una propria metrica, di una profondità culturale e storica, che si esprime in produzioni assolutamente uniche. Dietro tutto questo, ci sono le persone, che all’interno dei paesaggi ogni giorno lavorano per tenere a posto la terra, la pietra, l’albero; per governare il fluire delle acque, dei suoni, le atmosfere, gli odori, i colori. Ecco allora la storia dei grani antichi dell’Alta Irpinia, con i piccoli agricoltori degli altopiani, in lotta con le pale eoliche e l’omologazione; i coltivatori gelosi del pomodoro San Marzano, che presidiano i frammenti di terra nera nel mezzo del caos metropolitano; e quelli del pomodorino del piennolo, abbarbicati alle pendici di cenere del Somma-Vesuvio. Gli allevatori di Marchigiana sulle highlands sconfinate del Fortore, e quelli di bufale, nel reticolo di terra e acqua delle bonifiche storiche del Sele e del Volturno. Ci sono gli olivicoltori visionari delle colline selvagge del Cilento, e quelli della penisola sorrentina che coltivano i terrazzi antichi a precipizio sull’azzurro. E ancora, i viticoltori cooperativi dei grandi vini del Sannio; e quelli solitari che curano vigneti centenari in piena città di Napoli.
Ogni storia si impernia su una triade: c’è un paesaggio, col suo irriproducibile carattere; un imprenditore agricolo, che di quel paesaggio deve cogliere opportunità e sfide, e la cui attività è un continuo risolvere problemi (tecnici, burocratici, economici, organizzativi), di adattamento, evoluzione, sopravvivenza; e c’è un prodotto, un alimento, che di tutte queste cose è la sintesi, che collega quel paesaggio, gli uomini che lo coltivano, e noi. È un mondo di una ricchezza culturale e sociale straordinaria, e la domanda che mi sono posto infinite volte è perché, negli anni difficili che abbiamo attraversato, quando sugli agricoltori della regione è piombato un sospetto generalizzato (ricordate il cartello “In questo negozio non si vendono prodotti della Campania“), quando imperversava uno scandalo di proporzioni globali, in così pochi hanno preso le loro difese. La risposta non è semplice. Probabilmente conta il fatto che gli agricoltori costituiscono ormai all’interno della nazione una comunità del tutto minoritaria: gli occupati in agricoltura in Italia sono 850.000 su 23 milioni, il 3,7 del totale. Ed è minoritario anche il contributo diretto dell’agricoltura al prodotto interno lordo, di poco superiore al due per cento. È plausibile che in tempi di post-verità abbia finito col prevalere nel dibattito pubblico la preoccupazione indistinta di sessanta milioni di consumatori, sulle ragioni fondate di un milione scarso di produttori agricoli. Solo così si spiega l’appiattimento delle istituzioni e delle principali organizzazioni professionali agricole, nei momenti più aspri della crisi, sulle più allarmate posizioni consumeristiche; oppure, all’opposto, la linea di prudente, omissiva cautela sui reali aspetti di rischio, all’insegna del “meno se ne parla meglio è”. È vero, la bufera interessava in fondo una regione sola su venti, ma il vulnus di credibilità finiva per toccare l’agricoltura italiana nel suo insieme, come ha ben compreso il fondatore di Slow Food, Carlin Petrini, uno dei pochi leader a inquadrare da subito l’essenza della crisi. In un appassionato intervento nell’ottobre 2014 a Palazzo Reale a Napoli, toccò a lui, uomo del Piemonte, esortare gli agricoltori campani a respingere il marchio d’infamia, a rialzare la testa, profittando della dolorosa contingenza per fare chiarezza e ripartire, così come era successo ai viticoltori del Nord, dopo la brutta storia del metanolo. Il risultato è che l’agricoltura della Campania ha comunque pagato un prezzo altissimo.
[….] Basta guardare le immagini aeree notturne dell’Italia diffuse dalla Nasa, con le costellazioni luminose che illuminano le pianure e le fasce costiere, contro il buio delle dorsali montuose alpine e appenniniche. Città e campagna si contendono i suoli migliori, in Campania come nel resto d’Italia, con il risultato paradossale che più della metà del valore della produzione agricola si concentra proprio nelle aree più urbanizzate, le piane fertili e quelle vulcaniche, che assommano a meno di un quarto della superficie territoriale. Quando la vicenda della Terra dei fuochi sarà riconsiderata con il necessario distacco, riusciremo forse a comprendere come alla base di tutto sia il rapporto irrisolto, il conflitto aperto tra le tessere agricole e quelle urbane del mosaico, proprio in quelle aree luminose dell’immagine Nasa, dove s’addensa la vita del paese: le campagne urbanizzate, le vaste periferie rur-urbane, dove città e agricoltura si fronteggiano e si contendono la terra, senza più capirsi. (antonio di gennaro)
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