Il 5 aprile scorso è morto Giovanni Sgammato, maestro di cultura popolare di Pomigliano d’Arco. Giovanni, ex operaio Alfa Romeo, ha collaborato spesso con ‘E Zezi gruppo operaio, trasmettendo gli insegnamenti della tradizione popolare alle nuove generazioni. La sua storia è presente nel libro Napoli a piena voce.
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Domenica pomeriggio a Pomigliano d’Arco, provincia di Napoli. Non un’anima in giro, non un’automobile. Chi s’è appena alzato da tavola appesantito s’è disteso direttamente sulla poltrona. Siamo ad agosto, alle spalle i giri d’Italia, i tour de France e il campionato. Le domeniche in questo mese sono interminabili, soprattutto se resti inchiodato lì dove sei rimasto per tutto l’anno. Entri nel cortile di una palazzina e senti il rumore delle stoviglie che esce dalle finestre, dai balconi, e qualche cane si aggira nei dintorni del portone in attesa degli scarti. Il Lingotto della Fiat, in stile classico orwelliano, riesci a vederlo non appena imbocchi l’asse mediano da Acerra. Intorno è tutta campagna dell’entroterra campano.
Giovanni Sgammato ha scritto alcuni libri: Pomigliano, ra ‘e patane all’apparecchie, I dodici conti pomiglianesi, Antichi mestieri di Pomigliano. Dicono che le tradizioni popolari di Pomigliano camminano sulle sue gambe, che da un po’ di tempo a questa parte camminano poco, a dire il vero. Perché sono stanche, perché hanno camminato già abbastanza. “Toglimi una curiosità – chiede –, ma quando utilizzate questi aggeggi per registrare, ve ne accorgete se uno poi dice le fesserie?”. Sulla terrazza di casa sua beve bicchieri di Catalanesca per ingannare l’afa. Il monte Somma (la montagna fredda) è davanti a noi, mostra il suo petto e copre il cratere di un Vesuvio che visto da questa prospettiva non mette soggezione. Quasi pare di riuscire a toccare con le mani la Somma del monte.
La voce di Giovanni è calma, un sibilo che si trasforma all’improvviso quando s’innervosisce, s’infervora, e il tono diventa orgogliosamente acerbo. Porta una canottiera bianca, i suoi gesti sono rallentati dal calore e dall’età. Ha un pizzetto bianco che gli ricopre il mento, due occhi piccoli e il volto un po’ scavato. Sembra stanco, ma è per colpa della dialisi che lo rende spossato. Si aggira un gatto per la terrazza piena di piante, i palazzi di cemento occupano quasi tutto il panorama. Su un tavolo di legno degli attrezzi da lavoro, qualche scheletro di tammorra, una sega arrugginita, un martello. L’appartamento è piccolo. Sul tavolo del cucinino, un libro sulla storia del brigantaggio. Appesi ai muri gli oggetti che rimandano ai vecchi ricordi, foto di musicisti, strumenti antichi, tamburelli, maschere. Ecco, la sua faccia è come quella di una maschera dimenticata, pare truccata quella barba bianca, quel sorriso picaresco, quel pizzetto diabolico. A vederlo pensi al passato reciso, e i momenti in cui il suo tono diventa burbero mascherano a loro volta la rassegnazione a questo presente. Giovanni è testimone e custode di un cumulo di memorie. Nel periodo di carnevale organizzava i carri allegorici, e poi i fuochi di Sant’Antonio, la Zeza. Nel ’74 fu invitato a far parte del Gruppo operaio ‘E zezi, con il quale collaborava fornendo notizie e documenti sulle tradizioni popolari. Fino a poco tempo fa, teneva dei laboratori nelle scuole sulla costruzione e sull’uso degli strumenti, su arti e mestieri antichi oggi scomparsi. Molti lo considerano un maestro della cultura popolare, delle tradizioni dell’entroterra agricolo, semplicemente perché le ha vissute in prima persona, e sa che ciò che è stato non sarà più.
«Io ho sempre vissuto su quella benedetta montagna. Ho iniziato all’età di cinque anni a frequentarla. Adesso ne tengo settantacinque. Era il nostro sfogo, andavamo là sopra e facevamo bordello, facevamo le scampagnate. Abbiamo portato la nostra tradizione a Somma Vesuviana, ma non solo i pomiglianesi, pure i mariglianesi, gli acerrani, la gente di Casalnuovo, quelli di Volla, tutte le zone che stanno in questa valle hanno portato la tradizione là sopra. I sommesi tengono la montagna e basta.
Sono cresciuto qui, ho vissuto la guerra, il dopoguerra, la trasformazione del paese. Mio padre era un muratore e mia madre faceva la casalinga, però faceva tanti lavoretti che oggi le casalinghe non fanno più. Lavorava a maglia, cuciva i vestiti, gli scialli, riempiva i materassi… prima le chiamavano ’e mmatarassaje. Faceva questi lavoretti per arrotondare perché qua ci puzzavamo di fame. Eravamo quattro figli e siamo rimasti in due. Mio padre teneva pure un pezzo di terra che vendemmo per fame durante la guerra. Non tenevamo che mangiare. Allora papà per non farci morire di fame se lo vendette e fece il guaio. Tutti i giorni che passava di là, si fermava e si metteva a piangere davanti a quel pezzo di terra. I soldi che pigliò dalla vendita finirono subito e il pezzo di terra non lo teneva più. Invece là poteva almeno mettere le patate, i fagioli, due pomodori, si riusciva a mangiare qualcosa. Ma mio padre era un disperato.
Abbiamo vissuto fino agli anni Sessanta tra miseria, fame e privazioni. La guerra scoppiò quando tenevo tre anni. Allora si pensava solamente a scappare da sotto le bombe dentro i ricoveri, a vedere dove si doveva arrangiare un poco di mangiare. Non tenevamo pensiero più di andare sulla montagna. Dopo la guerra cominciarono a cambiare le cose. Nel ’49 io e mio fratello comprammo una fisarmonica a rate, mille lire al mese. All’epoca costava cinquantamila lire, una cifra astronomica. E imparammo a suonarla senza andare a scuola. La gente diceva: “Quelli si muoiono di fame e si mettono a suonare la fisarmonica, ma che devono fare? Devono andare cantando col piattino?”. Mio fratello che era più grandicello di me si vergognava di questa cosa e suonava di nascosto, poi un bel momento la lasciò e se ne andò proprio, non volle averci più a che fare. E io continuavo, tenevo a mio padre e mia madre che quando iniziavo a suonare si mettevano vicino a me, io li accompagnavo con la fisarmonica e loro cantavano. E ho imparato a suonarla discretamente bene accompagnando i miei genitori. Quando erano le feste della montagna mi mettevo la fisarmonica sulla spalla e me ne andavo sulla montagna. Dovunque andavo tenevo già la comitiva attorno: “Vieni qua, suona qua, canta con noi, mangia con noi”. Allora io non mi portavo mai la merenda appresso. Ero un grandissimo figlio di puttana, dove vedevo le ragazze più belle là mi buttavo in mezzo. Una volta una ragazza mi disse: “Ma tu quante mani tieni?”. Io levavo le mani da sopra alle zizze e le mettevo sul culo, tenevo sempre una mano su di lei. Ero pure un bel ragazzo. Dove vedevo ammuina là andavo, e dove vedevo le femmine iniziavo a suonare le ballabili.
In queste situazioni ci stavano sempre le persone più anziane che conoscevano le canzoni popolari, i detti, le filastrocche, e stando per anni insieme a questa gente mi sono fatto una cultura delle tradizioni. Fino a quando non è arrivato questo maledetto De Simone, con questo registratore di cazzo che si metteva dentro il sacchino, con la scusa che vedeva la festa e che stava a sentire si registrava tutto. S’è pigliato tutte le canzoni della tradizione, s’è messo a tavolino, lui, i musicisti e altra gente, e hanno cominciato a fare i dischi. Io non gli ho mai dato qualcosa della tradizione a Roberto De Simone e ad altra gente. Mai niente. Mi sono fatto sempre i fatti miei, nell’ombra.
Quando De Simone fece la canzone di Zeza per fortuna la registrò a Bellizzi e a Montemarano, non ha fatto quella di Pomigliano, però volle sentirla, e c’ero solo io che la conoscevo. La canzone di Zeza deriva dalla commedia dell’arte, è nata nel Cinquecento. La tradizione popolare l’ha assorbita e ne hanno fatto teatro di strada. Per i contadini era un rito propiziatorio per la fertilizzazione della terra. La Zeza rappresentava la madre terra, Pulcinella era il seme della terra, Vicenzella e don Nicola erano i frutti della natura. La semina, il germoglio, il raccolto… Insomma, era un auspicio.
Una sera, un amico che all’epoca stava con De Simone m’invitò a casa sua, e ci stava Fabrizio Trampetti, Peppe Barra, Concetta Barra, Bennato… Vollero sentire qualche strofa della canzone di Zeza. “Questa non è come quella che abbiano registrato noi”, diceva De Simone. E si capisce, questa è di Pomigliano. Quelle di Bellizzi e di Montemarano sono tutta un’altra cosa. Loro non sono riusciti a registrarla…
Qua se vogliamo capire la tradizione popolare dobbiamo cominciare dal mangiare. In questa zona ci sono dei momenti dell’anno che si cucinano determinati piatti. Prima gli struffoli e la pastiera non si facevano nel forno della cucina come si fa oggi. Si facevano dentro i forni del cortile. Ci stava un grande forno, che ci andavano pure cinquanta pezzi di pane dentro, e là tutte le femmine del cortile andavano a infornare queste pizze: pizze dolci, pizze piene, biscotti. Le pasticcerie non esistevano, ce ne stava uno solo nel paese e faceva pure la fame. Le donne s’inventavano i dolci. Gli struffoli… gli struffoli che cazzo sono? Non sono nient’altro che una pastella di pane. Le femmine quando facevano il pane rimanevano quelle molliche, quei residui, e allora con la rasola tiravano tutta ‘sta roba, impastavano un’altra volta e friggevano, ci buttavano un poco di miele sopra, e facevano il dolce natalizio. Poi la pastiera con il grano, e il migliaccio… Pomigliano è la patria del migliaccio, non ci sta carnevale senza migliaccio. In qualunque casa vai, la lasagna, le polpette e il migliaccio. Ma non sono venute le ricette da fuori, l’hanno inventate le femmine… Il crapetto al forno con le patate, ma chi cazzo se lo mangiava? Non c’era, non ci stava la carne. Allora le femmine, quando era Natale e Pasqua, chi teneva un coniglio l’uccideva e lo faceva con le patate, ma un coniglio mangiavano quindici persone, un ossicciolo per uno, tanto per farti fesso tu stesso. La miseria era troppo assai grossa, allora quella pigliava sei chili di patate, le taccheriava, le tagliava, le metteva dentro al ruoto, ci metteva queste quattro ossicciole di coniglio attorno, lo atterravano sotto le patate e lo infilavano dentro il forno, e dicevano che era il crapetto al forno con le patate. Ma per fare fesse ’e ccriature. Perché poi i ragazzini parlavano con i figli dei padroni di terra che stavano bene, se lo potevano fare il crapetto al forno con le patate. “Mammà ha fatto il crapetto al forno!”, dicevano. “E pure mammà l’ha fatto”. Ma che ha fatto? ’E ccoppole ’e cazzo?
La Pomigliano in cui sono cresciuto era agricola. Eravamo un popolo di straccioni morti di fame tutti quanti. Qua c’erano pochi padroni terrieri, tutti gli operai erano braccianti agricoli, poi c’era l’artigianato, ma ci stavano pochi artigiani che facevano un solo mestiere. Per esempio, il barbiere faceva pure il sarto e il serengaro, menava le sanguette, quando uno teneva la pressione alta gli buttavano una sanguetta dietro l’orecchio, gli tiravano il sangue e scendeva la pressione. Questo lo sapevano fare solo i barbieri. Lo scarparo faceva le scarpe su misura, però faceva pure il pulizzascarpe, faceva pure il solachianiello; insomma, tutti i mestieri legati alla costruzione della scarpa. Il sarto non era solo sarto, faceva altri lavori. Poi ci stavano quelli che facevano i lavori di campagna: lo zappatore, il potatore, lo scavapatane, il seminatore, facevano un sacco di cose. C’era il tosaciucci che tosava le bestie, c’era il ferracavallo, il medico degli animali. Quando partorivano i cavalli oppure una vacca, una crapa, chiamavano il ferracavallo, mica il veterinario. Qua non ci stava un cinema, non ci stava la televisione, feste non se ne facevano. La domenica passavi quella mezza giornata di riposo, perché si faticava fino all’una di pomeriggio. Chiunque andava a fare la giornata di fatica con un masto o un padrone di terra lavorava fino alla domenica all’una. Quello all’una ti dava la settimana, tu la portavi a casa e tua madre o tua moglie o tua sorella andava a fare la spesa. All’una del pomeriggio andava a fare la spesa e si metteva il piatto a tavola. Quando ti pagavano. Quando non ti pagavano ci stava la cartuscella. Andavi con la cartuscella dal salumiere: “Abbiate pazienza, datemi quest’altra spesa, vi pago domenica prossima che il padrone non ha pagato a mio marito”. Il salumiere teneva il quaderno nero con i nomi di tutti quanti i clienti dentro. E quando lo potevano pagare lo pagavano.
Che potevano fare ‘sta gente? Chi teneva un tamburiello si metteva là nel cortile oppure nell’angolo della via, si univano quattro, cinque fetiente e cominciavano a cantare. Come si cominciava a suonare usciva la ragazzina, la vecchiarella, il vecchiarello, usciva la signora che cacciava la bottiglia di vino. “Venite dentro la cortina che facciamo una pizza al forno…”. Chi lo poteva fare! E s’inventavano le feste, s’inventavano le tammurriate, le strofe delle tammurriate, oltre a quelle che si conoscevano già. Per mandare un messaggio a una ragazza ce lo mandavi cantando, no? Così nascevano le cose. E queste povere figliole, che tenevano gli occhi della madre, del padre, dei fratelli addosso e della gente, per parlare con un giovanotto dovevano fare i salti mortali. Perché poi se si accorgevano che una aveva fatto ammore con qualcuno, nessuno se la pigliava più, e diventava vecchia zitella oppure si andava a fare monaca. Quando si fidanzava una ragazza in casa… e che ci voleva! Tu un bacio non ce lo davi finché non era la vigilia del matrimonio. Alcuni matrimoni sono falliti proprio perché erano combinati. E da queste cose sono nate un sacco di canzoni popolari.
Si è andati avanti fino agli anni Sessanta, poi Pomigliano ha cominciato a subire la trasformazione. È venuta l’immigrazione del nord, gente da Napoli, da fuori, si sono mischiati un poco la popolazione. Insieme a noi sono venuti ad abitare gente più emancipata, ci hanno imparato un poco a campare a tutti quanti. Noi fino agli anni Sessanta eravamo un popolo di zulù, ma non era colpa nostra. C’erano anche degli intellettuali, però la maggior parte era gente analfabeta, semianalfabeta, ignoranti, maleducati, perché si pensava solo alla fatica e basta. Però ti dico questo: finché noi abbiamo vissuto così non abbiamo sentito parlare di droga, non abbiamo sentito parlare di latrocinio, di omicidi, qua dormivamo con le porte aperte tutti quanti. Tu volevi una cosa? Andavi dalla persona che la teneva. Quello, sapendo che tu gliela chiedevi per non rubarla, te la dava perché se si rifiutava correva il rischio di essere rubato. E quando uno non teneva che mangiare, perché la famiglia erano poveri e non potevano mettere il piatto a tavola, chi lo teneva te lo dava. Non come adesso che lo buttano nella munnezza, ti vedono morire di fame e nessuno ti pensa.
È iniziato tutto verso il ’62-63, con l’avvento del benessere. Il territorio ha subito la trasformazione totale quando è arrivata l’Alfasud nel ’69. I contadini avevano sempre stentato dentro a un pezzo di terra, a coltivare pure quei dieci centimetri quadrati, se ci potevano seminare una piantina la seminavano perché poteva produrre cibo, mangiare. Quando è arrivata l’Alfasud, ha fatto quell’assunzione mastodontica… Hanno assunto cani, porci, gatti, zoccole, hanno mandato tutti quanti là dentro, lo sapevi o non lo sapevi fare il mestiere. E quello che ha sempre zappato la terra ha visto il miraggio: cassa mutua, marchette, assicurazione, case, medicine. Allora ha mandato affanculo tutti quanti, e ha bruciato tutto, ha buttato via un patrimonio culturale: carrette, attrezzi della terra, qua si faceva tutto a mano, aratri, rastrelli, tutta la madonna… C’è stato qualcuno che ha racimolato queste cose, ma alcuni contadini le hanno bruciate proprio, contenti di liberarsi di questa terra. Poi, dopo tre anni a stare chiusi là dentro come i polli della pollicoltura, a un posto di fatica senza alzare la testa, a fare la produzione… Ti manca il sole in testa. Prima, il mese di maggio già erano tutti quanti neri, e tu là dentro li vedevi bianchi come il latte, con le facce bianche dei carcerati, l’aria che ti manca, l’aria fetente, le malattie. Allora il contadino ha iniziato a pensarci sopra: “Ma io tengo quel pezzo di terra là abbandonato, io esco alle cinque la sera, fino alle nove che fa notte, io me lo vado a coltivare”. Poi ha visto la differenza tra la fabbrica e la campagna, e ha cominciato a schifarla, ha cominciato a darsi malato. Perché quando andava là dentro, il contadino a stare otto ore chiuso gli veniva il mal di testa veramente. Quando andavi in infermeria perché ti faceva male la testa, quello ti metteva quaranta gocce di Novalgina dentro a mezzo bicchiere d’acqua e dopo cinque minuti stavi bello e arzillo, però quelle quaranta gocce ti potevano pure uccidere, e nessuno diceva niente. Ti faceva male un braccio, la schiena, andavi là e ti davano le gocce di Novalgina e altre porcherie che tenevano sti spaccimma di medici. Il contadino quando ha scoperto che il dolore di testa era dovuto alla mancanza di aria aperta, ha cominciato a fare l’assenteista. Ha detto: “Le macchine fatevele voi. Io finché me ne vedo bene resto qua”.
Io ho fatto sempre un solo mestiere, il pittore di stanza. Ho cominciato a sette anni, tenevo uno zio che non aveva figli e stavo sempre appresso a lui. Invece di andare a scuola sono andato a faticare, a impararmi il mestiere. Poi a undici anni andavo a faticare e andavo a scuola. La mattina andavo a scuola e appena uscivo non andavo neanche a casa, andavo direttamente sulla fatica fino a sera. Tenevo undici anni, stavo alla prima elementare. Arrivai fino alla terza elementare poi non andai più a scuola. Avevo quattordici anni, dove cazzo dovevo andare alla terza elementare? Mi iscrissi direttamente alle scuole serali, ma ci andavo perché ci stavano le insegnanti che erano signorine, e allora noi le andavamo a sfottere per divertirci un poco, e cosi mi sono preso la licenza media.
Ho cominciato a lavorare per conto mio quando già stava l’Alfa Romeo. Conoscevo bene il mestiere. Non mi ricordo nessun episodio del masto che dice: “Pigliati i soldi e vattene”. Sono stato sempre io a dire: “Fatemi i conti, fatemene andare”, quando non mi trovavo bene, che già tenevo la fatica da un’altra parte. Poi venni assunto in fabbrica. La buonanima di mia moglie disse che non voleva l’artigiano, preferiva l’operaio nello stabilimento, che era meglio, diceva. E per amore mi andai a chiudere dentro a quel cesso, però stavo sempre con un piede dentro e un altro fuori. Facevo il verniciatore nel reparto più fetente che ci stava. Otto, dieci ore là dentro a respirare la vernice, una vita di merda. La mattina mi alzavo, se tenevo qualche fatichella me la andavo a fare, poi alle cinque uscivo, e ho fatto questo per un sacco di anni. Ma ciò non mi ha mai distolto, perché la mia passione è stata sempre quella di andare sulla montagna.
Potrei dire di essere un endoetnomusicologo, perché la musica non la faccio con la musica, ma con le mani, con la bocca, con i suoni che riesco a emettere. Ho scritto canzoni, ma piuttosto poesie, aneddoti, storie. Ho fatto qualche spettacolo teatrale. La passione è cresciuta insieme a me. Quando tu racconti una bugia stai recitando, ti trovi? A furia di raccontare bugie tu diventi un grande attore. Perciò prima ti dicevo che molta gente quando vede ‘sto registratore inventa le cose. È perché sono attori, recitano, ma non ti dicono la realtà della loro vita. Oggi si mettono scuorno di dire: “Io quando ero ragazzo mi puzzavo di fame”. Ma non ce ne stava per nessuno, quale vergogna ci sta? Usciti da una guerra, da vent’anni di dittatura fascista, e prima ancora che ci stavano quei zuzzusi dei piemontesi, quegli spaccimmusi mariuoli, poi i liberali, i famosi liberali. Il padrone mangiava e buttava l’osso come se lo buttasse al cane, teneva i ragazzi a lavorare come garzoni, solo per il mangiare. Il padrone era padrone della vita tua. Non potevi fare niente se non ti dava il permesso. Era vita questa? Allora è meglio la schiavitù della fabbrica, che magari tu alle cinque di sera esci da là dentro, te ne vai a casa e sei padrone della tua vita, anche se acciaccato, ma sei padrone della vita tua. Là no, là quello ti faceva dormire insieme agli animali, alle cinque di mattina ti dovevi alzare, stavi bene o stavi malamente, pioveva o fioccava o menava il vento, ti dovevi alzare da dentro al letto. E quando gli pareva a lui poi ti dava quella mazzetta, quindici lire. Era vita questa? E per che cosa? Per la merenda, un poco di pane asciutto con un poco di formaggio. È logico che poi per sopravvivere eravamo tutti analfabeti, nessuno andava a scuola, nessuno sapeva dire una parola in italiano.
La fabbrica è stata la rivoluzione radicale che ha cambiato la cultura contadina di queste zone, ha ribaltato un territorio. Questo ovunque, mica solo a Pomigliano. Dove sono arrivate le fabbriche è arrivata la rivoluzione, sono arrivate le malattie, i tumori, sono arrivati i soldi… è uscita fuori la camorra. Nel periodo di Cutolo sono nati due, tre clan a Pomigliano, che si sono autodistrutti fra loro, e ne rimase uno che era il più potente, quello dei Foria, però poi arrestavano il caporione, arrestavano i fratelli, insomma li arrestavano a tutti quanti. Lui perse la vista, diventò cieco, un altro paio di loro morirono ammazzati. Tuttora ci sta qualche piccolo fenomeno, ma non è dilagato come in altri paesi.
Verso la fine degli anni Ottanta mi accorsi che quello che tenevamo non ci stava più. A quell’epoca tenevo quarantacinque anni e già mi sentivo vecchio. Pensai: “Prima che muoio voglio lasciare una testimonianza di queste cose che non abbiamo più”. Dopo la pubblicazione molta gente s’è riconosciuta, gente che ha vissuto nella campagna e poi se n’è andata. Ho avuto una soddisfazione, però se avessi avuto qualcuno a guidarmi un poco, tenevo ancora un sacco di cose da scrivere. Tutto in dialetto ovviamente. Quello che non è parte della tradizione l’ho tradotto in italiano. Quando andai a presentarlo all’università di Urbino fui applaudito dai professori e dal pubblico, e i professori mi chiesero: “Che scuola hai fatto per scrivere questo libro?”. Io risposi: “Le scuole che mi hanno bastato”.
Molti anni fa a Pomigliano ci stava un tipo d’uva che chiamavano pere ’e palummo. Un bel vino da nove o dieci gradi, però ‘sto vino era molto delicato, lo dovevi proteggere. Per proteggerlo, all’epoca ci stavano il verderame e lo zolfo. Squagliavano il verderame dentro a una botte, ci buttavano la calce dentro e poi con una pompa in mano pompavano ‘sto verderame sopra. Questo si faceva nel mese di maggio. Quando facevi la spruzzata veniva un’ondata di caldo che poteva far bruciare tutta quanta l’uva. Allora si diceva: “Aggio iuto pe salvà ’a vigna, e aggio appicciato ’o iaccone”. Cioè, volevo salvare la vigna e ho bruciato tutta la vite. E questo è successo con la venuta delle fabbriche. Siamo andati per migliorare e abbiamo peggiorato. La terra non la teniamo più, le fabbriche stanno in fallimento, l’artigianato è fallito, i contadini non ci sono più, la terra è inquinata, non c’è più niente… La rivoluzione! Dimmi quale rivoluzione ha portato al benessere. Eravamo un popolo di morti di fame prima, mo siamo un popolo di pidocchiosi». (andrea bottalico)
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