Le vicende che negli ultimi mesi hanno ruotato intorno ai due principali teatri napoletani (San Carlo e Mercadante) sono state caratterizzate da una tracotanza umana e istituzionale. Le quindici assunzioni a tempo indeterminato “pianificate” mediante concorso per bando pubblico, in realtà già decise a monte (salvo un caso), sono state – a detta della direzione del Mercadante – una parte fondamentale del viatico che ha portato lo Stabile a diventare uno dei sette Teatri Nazionali del paese (con relativi aumenti di finanziamenti, ecc.). La notizia ci sarebbe stata, a dir la verità, se il Mercadante avesse fallito nell’impresa di ottenere il riconoscimento, come peraltro segnalato da Mario Martone in un commento estremamente lucido pubblicato sul Mattino.
Che il teatro e le politiche culturali siano all’interno delle dinamiche e relazioni di potere territoriali e nazionali non è una novità, tuttavia negli ultimi anni si è oltrepassato ogni limite di decenza. Certo, la crisi economica e la drastica diminuzione di finanziamenti statali destinati alla produzione culturale ha avuto un ruolo significativo, se non determinante, tuttavia la conseguenza è stata una sostanziale accettazione della mediocrità e del sistema di potere vigente da parte di troppi autori/autrici – operatori/operatrici – che, pur di realizzare proprie idee e propri lavori, hanno chiuso non solo gli occhi ma anche orecchie e nasi di fronte a una gestione fallimentare tanto sul piano artistico quanto su quello economico del teatro napoletano (vedere anche la misera fine del Festival Teatro Italia di rutelliana memoria che tanto lustro alla città diede qualche anno fa…).
Acquiescenza, opportunismo, ignavia sembrano essere diventati i paradigmi dell’intellighenzia napoletana. Non una voce critica si è sollevata rispetto alla vicenda Mercadante ma, anzi, ha dominato un silenzio imbarazzante, divenuto in alcuni frangenti un’inaspettata solerzia nel manifestare sostegno non tanto alla direzione teatrale, ma alle prassi attraverso le quali si è tentato di “motivare” mere dinamiche clientelari. Sostegno, stucchevole e sorprendente, proveniente perfino da quelle individualità capaci di affermarsi nel panorama dell’industria culturale nazionale e che tuttavia sembrano aver preferito barattare l’autonomia autoriale con la meschina gestione del quotidiano. Quanto ci manca la Fabrizia che scelse di arroccarsi nella fortezza di Itri?
Spendere un paio di parole non servili su un quinquennio di politiche culturali devastante, durante il quale ognuno ha esclusivamente tutelato il proprio particulare, sarebbe stato il giusto prezzo per ottenere un’indulgenza fuori tempo. Invece, con qualche sorprendente eccezione (vedi la campagna del Corriere del Mezzogiorno), lo spirito critico della città ha preferito volgere lo sguardo dall’altra parte, o quanto meno non rendere pubbliche le proprie opinioni nel tentativo di tutelare la propria posizione e prospettiva professionale. Il sociologo e filosofo statunitense Albert O. Hirshman, a proposito delle diverse modalità di dissenso che una popolazione può esprimere in una situazione di “oppressione” politica identificava due opzioni: Exit ovvero l’abbandono, l’esilio, il cambiare contesto (pensiamo a quanto accadeva con le fughe dai paesi del patto di Varsavia), oppure affidarsi alla Voice Option, cioè la protesta, l’insurrezione, il far sentire la propria voce. Ecco, nessuna delle opzioni di Hirschman è stata presa in considerazione dal mondo culturale della città. Si rimane silenti, come un gregge che non riesce più neanche a belare. (-ma)