Nell’anno kantoriano (iniziato lo scorso 6 aprile) e a venticinque anni dalla scomparsa, Salerno dedica a Tadeusz Kantor – regista e autore polacco che fu anche artista visivo, poeta e sceneggiatore – una rassegna (dal 3 all’8 novembre) che ci consente di riflettere sulla sua opera e di ricordarne la presenza nella città che negli anni Ottanta ospitò alcuni dei suoi più importanti lavori.
L’omaggio al drammaturgo polacco si articola in un vasto programma d’incontri, seminari, proiezioni, opere ispirate alla sua drammaturgia, come Bruno, lavoro dedicato a Bruno Schulz, e J’accuse, installazione video di Paola Bianchi e Silvia Palagreco, che utilizza alcune registrazioni audio dei suoi spettacoli. Interessanti si annunciano anche i due workshop con la presenza di Ludmila Ryba, attrice della mitica compagnia Cricot 2, e Roman Siwulak, artista sodale di Kantor.
Crepino gli artisti e Qui non ci torno più, i due spettacoli che Kantor mise in scena, rispettivamente, al Teatro A di Mercato San Severino nel gennaio del 1988, e al Cine-Teatro Capitol di Salerno nel 1990 rappresentarono due esperienze vitali per molti giovani artisti attori napoletani che, contagiati dall’entusiasmo di Antonio Neiwiller che si ispirava alla sua lezione, non si lasciarono sfuggire l’occasione di assistere ai due lavori.
Il legame con un passato sepolto nella memoria costituisce il fondamento del “teatro clandestino” che Kantor fondò nel 1955 a Cracovia, in opposizione alle convenzioni del teatro ufficiale. Una drammaturgia povera che tiene insieme la trama individuale del suo vissuto, con i sogni, le tradizioni religiose della sua terra e ciò che egli chiamava “realtà degradata al rango più basso”. Da una tale realtà scaturiva un immaginario pietrificato nel nero assoluto della sala, che – si pensi soprattutto a La classe morta, suo capolavoro – catturava emotivamente chi assisteva a questa sorta di cerimonia individuale e collettiva del ricordo; un rito che evocava la vita attraverso la sua assenza. Non a caso, Teatro della morte è il titolo del volume che raccoglie tutti i suoi scritti e rinvia appunto a quello spettacolo che rivoluzionò la scena contemporanea.
Gli spettri di Kantor ritornarono nelle due messinscene salernitane, e crediamo che riattivarne anche sommariamente il ricordo possa in qualche modo aiutarci nella comprensione della straordinaria forza poetica della sua drammaturgia.
Già nel commento al primo atto di Crepino gli artisti, il discorso sulla memoria sepolta appare come il tema dominante di uno spettacolo dove tutti i personaggi sono solo fantasmi che “non appartengono alla vita quotidiana” e risalgono – come l’Io reale, l’Io morente, l’Io dell’infanzia, allusivi delle diverse fasi della vita stessa del regista – dal fondo più remoto della psiche tentando di ricucire i brandelli della propria esistenza. In questo, come in altri spettacoli, assumono valore di linguaggio espressivo autonomo anche i brani sonori e musicali, che si ripetono ossessivamente e accompagnano le scene che si sviluppano in modo frammentario e aritmico. Come sempre, Kantor partecipa all’azione un po’ defilato, sedendo qui di fronte a una donna anziana, la Mamma, con le mani che si muovono lentamente a indicare il tempo della musica.
“Questa sarà una rivista, non un dramma serio”, affermò Kantor in un’intervista e, nel testo che accompagnava lo spettacolo, aggiunse: “IL LUOGO DELL’AZIONE non lo troverete su questa scena. Non c’è neanche l’azione. È piuttosto un viaggio nel passato, negli abissi della memoria”.
Nelle messinscene del regista polacco – dove gli oggetti poveri (un’infangata ruota del carro, un’asse intarlata, una sedia da cucina) condividono con gli attori la stessa funzione di “Retrocedere il Tempo” – lo spazio scenico finisce sempre col trasformarsi in una zona di frontiera dove vita e morte si confondono. In Crepino gli artisti si avvicendano, come in una giostra, personaggi ed eventi incancellabili dalla sua memoria: il Lurido, l’Impiccato, il Baro, il Medico greco Asclepio, il Cavallo scheletro, la Sgualdrina del cabaret, il Visitatore, gli Sbirri con le macchine di tortura, la Santarellina, un deposito di cimitero, delle croci, due individui identici come gemelli – gli straordinari gemelli Janicki (ricomparsi, nel 1999, ad alcuni anni dalla morte del maestro, insieme a Salvatore Cantalupo, Maurizio Bizzi e Giulio Ceraldi, al Teatro Nuovo di Napoli, in Terremare, un originale spettacolo di Loredana Putignani) – che, privi “della coscienza del proprio io, si scambiano l’uno con l’altro” e, quando sono soli, si sorprendono della loro assenza.
In Qui non ci torno più, invece, frammenti di memoria, già presenti in altri lavori, consentono di cogliere in profondità la trama di un passato remoto che, sin dall’infanzia, ha lacerato l’esistenza del maestro. Compaiono lo spettro di suo padre morto, l’Orchestra Corazzata, il prete seduto a un tavolino, la Folle Sguattera tuttofare, il deportato in Siberia, suonatore ambulante di Wielopole, la città natale che diede il titolo al suo ultimo spettacolo. Tra queste macerie, si fa strada la speranza di fuggire dai luoghi della morte per riconquistare la vita. “Attraverso la porta irrompe la folla stipata dei fuggiaschi del ’39. I Fuggiaschi trascinano dei Banchi di Scuola, nel panico e nella disperazione. Sono gli stessi i miei Fantasmi di Attori Girovaghi”.
Gli attori girovaghi come fuggiaschi che scappano dalle guerre sono il nostro presente tragico; fanno pensare all’esodo biblico di milioni di uomini e donne oggi in fuga dalle loro terre per sfuggire ai massacri e alla fame. Impossibile non restare colpiti dall’intensità di questo sguardo che mentre contamina realtà materiale e vita psichica, tende ad affermare insieme alla dimensione etica dell’attività creativa, la “completa autonomia del Teatro”. In Crepino gli artisti, le immagini alludono ancora all’inesorabile soccombere dell’arte e dell’uomo dentro la Storia. E anche quando – come in Wielopole Wielopole – in un’atmosfera da sacra rappresentazione, insieme ai familiari di Kantor, irrompono in scena soldati che si rianimano al suono di una marcia militare, il suo sguardo sarà sempre quello apocalittico dell’Angelo della Storia che volge il suo sguardo al passato e non scorge che eventi di rovina e di morte. (antonio grieco)