La settimana scorsa, a Torino, è iniziata con i presidi contro il green pass, martedì 15 febbraio. I coordinamenti di lavoratori e lavoratrici si sono ritrovati davanti a Palazzo di città, la mattina, e davanti alla prefettura, il primo pomeriggio. Nel secondo pomeriggio di martedì varie sigle del movimento contro il green pass si sono riunite in piazza Castello. La cronaca che pubblichiamo è scritta da chi ha vissuto dall’interno i presidi mattutini e osserva alcune differenze con la manifestazione pomeridiana. Tre giorni dopo, il venerdì mattina, sono scesi in piazza gli studenti delle superiori per protestare contro gli ambigui legami tra scuola e lavoro, e a favore di un modello di istruzione diverso da quello odierno, fondato sulla competizione e il sogno imprenditoriale. La manifestazione degli studenti – nei temi e nelle parole d’ordine – non ha mostrato legami con le istanze del movimento contrario al lasciapassare digitale. La cronaca è un tentativo di ragionare sulle differenze tra le piazze e su una convergenza per ora mancata tra lavoratori e studenti.
I PRESIDI DI MARTEDÌ MATTINA
A Torino lo sciopero del 15 febbraio occupa due piazze, in termini spaziali, temporali e di composizione. La mattina, fino al primo pomeriggio, vede svolgersi due presidi, uno davanti al comune e un altro davanti al palazzo della prefettura. Questi due presidi sono omogenei e compongono la prima piazza. Sono organizzati dall’assemblea settimanale del coordinamento lavoratori no green pass, supportato dal SiCobas. Nelle ultime settimane il coordinamento è stato attivo ogni giorno, con presidi di solidarietà nei confronti di altre iniziative e volantinaggi nelle piazze, nei mercati rionali, davanti alle fabbriche, alle aziende, ai palazzi delle istituzioni. La loro contestazione si concentra sul fallimento delle politiche del governo Draghi e sull’inefficacia delle restrizioni imposte, che poco hanno a che fare con la tutela della salute collettiva. La loro prima istanza, quindi, è l’abolizione del green pass e dell’obbligo vaccinale, seguita dal pagamento delle giornate di quarantena, dal reintegro dei lavoratori sospesi, dalla richiesta di un salario o reddito garantito per tutti, dalla garanzia di un sistema di cura efficace e dal rispetto dei criteri di sicurezza nei luoghi di lavoro, dove muoiono centinaia di persone ogni anno.
Vi è una ragione se il primo presidio s’è tenuto dinanzi al comune. L’entrata in vigore dell’obbligo vaccinale per gli ultracinquantenni e l’imposizione del lasciapassare rafforzato sui luoghi di lavoro fa sì che il comune debba sospendere circa duecento dei suoi dipendenti, se questi continueranno a rifiutare il trattamento sanitario previsto. Durante l’incontro, mentre una delegazione attende di incontrare il sindaco o la sua vice, le rivendicazioni si ampliano grazie alle testimonianze di operai di vari settori, corrieri, insegnanti, docenti universitari, pensionati, un dipendente comunale. Diversi operai sottolineano la complicità che i sindacati confederali hanno prestato allo stato e a Confindustria, abbandonando i lavoratori, favorendo il loro indebolimento come individui e come categoria.
Un sindacalista della Cub ricorda che l’Italia insiste con le misure sanitarie vessatorie mentre negli altri paesi europei la maglia delle restrizioni si allarga sempre di più fino a sparire. Un’antropologa si sofferma sugli effetti di questa gestione autoritaria, nocivi non solo dal punto di vista della salute fisica ma anche di quella emotiva, soprattutto per chi in Italia non ha neanche la possibilità di scegliere se curarsi o meno, come i minori stranieri non accompagnati, evidenziando il modo in cui il governo si sia concentrato sulla messa a punto di una strategia della paura che non può provocare altro che malessere fisico e psicologico.
Una funzionaria dell’agenzia delle entrate di Torino legge l’appello che alcuni dipendenti dell’ente, preoccupati delle sorti dei colleghi che dal 15 saranno sospesi, hanno inoltrato alla direzione. La loro richiesta è che gli venga concesso almeno lo smart working. Il loro invito è quello di creare delle reti di solidarietà che vadano oltre l’opposizione fra vaccinati e non vaccinati. A prendere la parola sono anche gli studenti universitari contro il green pass, che qualche settimana prima avevano ricevuto solidarietà dagli stessi lavoratori mentre occupavano il rettorato. Ci sono poi i disoccupati e i lavoratori precari, anch’essi organizzati in un’assemblea che si incontra nella sede del SiCobas ogni giovedì.
Sul banchetto del coordinamento dei lavoratori c’è un volantino che informa della nascita di un’associazione appena fondata da alcuni membri. Attraverso questo strumento, nell’immediato si raccoglieranno contributi economici da donare a chi ha perso il lavoro e sta partecipando alla lotta. Non è la prima “cassa di resistenza” nata dall’iniziativa di un’assemblea di lavoratori, ma è un’altra cassa necessaria, perché col passare dei mesi il numero di persone e nuclei in difficoltà è cresciuto e le reti di aiuto familiari non sono più sufficienti. Una cassa informale è stata creata anche da operai dell’Avio qualche mese fa. E un’altra ancora è nata su iniziativa del comitato lavoratrici e lavoratori sospesi, la cui assemblea è ospitata dalla Cub Sanità. Anche quest’ultimo gruppo è presente davanti al comune con il suo banchetto, i volantini e le bandiere. Nelle ultime due settimane, alcuni lavoratori sospesi hanno organizzato due presidi davanti all’albo dei tecnici sanitari per chiedere il reintegro di chi, pur avendo ottenuto il lasciapassare rafforzato a seguito di guarigione, è ancora in attesa di una risposta positiva da parte dell’ente. Pochi giorni dopo il primo presidio, alcuni di loro hanno ricevuto la comunicazione di reintegro, ma il loro green pass sarà valido per un tempo inferiore al normale. Si parla di quattro mesi. Le loro rivendicazioni sono molto vicine a quelle dell’altra assemblea di lavoratori. È auspicabile che entrambi i percorsi di lotta procedano nella direzione del supporto reciproco.
In piazza, insieme alle presenze costanti, ci sono anche volti nuovi, persone che stanno aderendo a uno sciopero o partecipando a un presidio per la prima volta. Tra loro ci sono anche italiani senza cittadinanza che percepiscono il lasciapassare sanitario come una doppia discriminazione. Molti lavoratori si confrontano sulla scarsa presenza dei colleghi. Le ragioni di questa assenza hanno radici lontane. Allo stesso tempo restano increduli, perché ritengono che di fronte a tali condizioni non si possa più stare a guardare e aspettare. Questo sentimento accomuna la maggior parte dei presenti, compresi gli studenti e i cani sciolti della militanza cittadina che partecipano alle iniziative e alle assemblee no green pass da mesi. La contestazione di questo dispositivo è del tutto coerente con molte altre proteste, e se volessimo guardarla in un’ottica intersezionale, sarebbe opportuno unirla alle altre lotte che i movimenti hanno sempre legittimato e tuttora supportano.
Tra le rivendicazioni dei no green pass ce n’è anche una che evoca il vecchio slogan femminista “il corpo è mio”, ovvero il diritto all’autodeterminazione, la libertà di scegliere autonomamente come prendersi cura della propria salute, di sé stesse e della relazione con il corpo sociale. Inoltre, la connotazione di questa piazza del 15 è anche esteticamente inequivocabile. Le bandiere dei sindacati di base si mischiano a quelle no green pass disegnate dai compagni valsusini e ad altre bandiere rosse. Non si capisce per quale motivo la contestazione del green pass continui a non essere ritenuta degna di considerazione dai movimenti. Cos’altro trattiene compagne e compagni di lavoro, di studi e di militanza dal prendere posizione e solidarizzare? I due presidi la mattina del 15 non possono essere tacciati di ambiguità, eppure sono stati disertati dai movimenti eccetto sparuti cani sciolti e solidali. I coordinamenti dei lavoratori contro il green pass hanno un’impostazione chiara: leggono l’attuale esclusione entro un più ampio contesto delle politiche lavorative; al contempo hanno una composizione eterogenea, varia, perché accolgono persone che non hanno un’annosa esperienza di attività politica. Per questo è necessario rafforzare questi coordinamenti, sostenerli, fare in modo che si allarghino ed evitare in tutti i modi le fratture al loro interno.
Verso mezzogiorno giunge la notizia che Michela Favaro, la vice del sindaco Lo Russo, ha riferito ai lavoratori che l’unica soluzione per evitare la sospensione è andarsi a vaccinare. Incassato il colpo, il presidio si sposta verso la prefettura, in piazza Castello, e anche lì una delegazione di tre lavoratori viene ricevuta dalla vice del prefetto, la quale accoglie l’istanza e prende tempo. Le due ore di presidio nella piazza assolata diventano occasione di socialità tra le persone che vi partecipano. Molte di loro cominciano a fare il bilancio della giornata e si danno appuntamento per il tardo pomeriggio, quando si incontreranno per fare assemblea. Solo alcuni di loro hanno intenzione di fermarsi davanti al palazzo della regione per partecipare o osservare la manifestazione che partirà alle tre e mezza.
LA MANIFESTAZIONE DEL MARTEDÌ POMERIGGIO
Quella del pomeriggio è la seconda piazza. Si tratta del presidio organizzato dal “Fronte del dissenso”, dove convivono gruppi di protesta come il No Paura Day, la Fisi, l’Associazione fieristi italiana, le partite Iva Italia, il coordinamento Verità e libertà, i partiti Ancora Italia, ItalExit, Pro Italia e altri ancora. Il sabato precedente, durante l’aperitivo sociale in piazza Vittorio, lanciato dal No Paura Day, un gruppo di lavoratrici e lavoratori sospesi, sostenuti dalla Cub, erano stati cacciati dopo aver provato ad allestire il proprio banchetto vicino ai gazebo degli organizzatori. La presenza delle bandiere del sindacato ha reso impossibile qualsiasi tipo di dialogo con chi si era intestato la piazza tramite comunicazione alla questura: al No Paura Day l’unica bandiera ammessa è quella “neutra” dell’Italia, dicevano.
Il 15 pomeriggio, in effetti, il tricolore italiano domina la scena rendendola esteticamente distante da quella della mattina. Il tricolore e l’azzurro si ripetono nelle bandiere degli altri partiti e nella locandina dell’evento, dove un blocco di testo centrale è incorniciato da una fascia spessa di loghi. Il testo breve riporta l’art. 1 della Costituzione italiana per evocare i principi della democrazia e della sovranità popolare. Lo slogan “Chiudiamo tutto oggi per non chiudere tutto domani” riprende quello delle proteste accese durante i vari lockdown da commercianti e piccoli imprenditori. Gli interventi dal palco sono ben amplificati, vengono introdotti dalla presentatrice della manifestazione (Serena Tagliaferri) e inframezzati da irruzioni di musica pop. A prendere la parola sono un rappresentante del sindacato Fisi, un avvocato, uno storico, membri di partiti (il PC di Rizzo e Generazioni Future di Mattei), liberi professionisti. Le parole d’ordine ricorrenti sono quelle che richiamano i diritti costituzionali, che si appellano alla legge e alla giustizia, che promuovono la legalità; altre si spendono a difesa dei beni comuni, denunciano lo smantellamento del servizio pubblico e criticano la privatizzazione in chiave anticapitalista. In generale, si respira aria di sovranismo e antieuropeismo. La piazza è più numerosa di quella della mattina.
IL CORTEO STUDENTESCO DI VENERDÌ
Venerdì 18 scendono in strada gli studenti in quaranta città d’Italia. A Torino il corteo è vario e molto vivo, parte da Porta Susa e si dirige verso sud, sfiora la sede di Confindustria e prosegue verso Porta Nuova. Per gli studenti è una mattinata di festa, ci sono tanti cartelli di cartone messi insieme in autonomia. Si percepisce soprattutto la voglia di prendere la parola, urlare, rompere il silenzio ed essere ascoltati. Questo è il cuore politico del movimento. Le ragioni tematiche ufficiali, come l’alternanza fra scuola e lavoro, sono fecondi pretesti per scatenare la pulsione di vivere dopo due anni di confinamento e didattica a distanza, il desiderio di essere protagonisti e soprattutto vivaci per la strada. I cori, i canti, i vecchi slogan sembrano le forme inevitabili per trasmettere una dominante esigenza di esprimersi.
Gli studenti medi hanno vissuto l’isolamento e ora sono ritornati a scuola: questa condizione consente di organizzare lo sfogo collettivo come reazione agli ultimi due anni. Per questo il movimento è trainato da loro. Gli studenti universitari paiono non pervenuti. Forse gli universitari, a differenza degli studenti medi, non sono ancora tornati nelle aule, o almeno sono dispersi e frammentati tra lezioni a distanza e rarefatte presenze. Nei comunicati dei collettivi di facoltà si espongono riflessioni sul lavoro e il precariato, ma nemmeno una riga menziona il grande rimosso dell’esclusione nelle aule e nei luoghi di lavoro a causa del lasciapassare. L’università digitale potrebbe già adesso essere l’anticamera di uno spegnimento corporeo e intellettuale. Eppure i collettivi universitari possono avere il ruolo fondamentale di elaborare la relazione attuale tra scuola, istruzione e lavoro; inoltre le forme di esclusione in università, nelle fabbriche e nei luoghi sociali potrebbero essere l’occasione per immaginare e creare nuovi collegamenti, dialoghi tra i mondi. Per ora domina la paralisi e manca il legame tra movimento studentesco e lavoratori: un limite in questa stagione dove le lotte nascono come accenni di primavera. (alessandra ferlito)
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