Esce oggi il libro di Miguel Angel Valdivia, Il divino inciampare. Vita e miracoli di San Giuseppe da Copertino (Coconino Press-Fandango, pp. 208, b/n, 17 x 24, 20 euro), un graphic novel che rielabora la storia di Giuseppe Desa, il “santo volante” venerato dai contadini e dalla povera gente, che secondo la tradizione popolare andava in estasi e volava davanti a un ritratto della Madonna. “Miracoli” che attirarono le attenzioni del Sant’Uffizio e gli costarono due processi e vari trasferimenti, prima della canonizzazione post-mortem. Dalla sua storia Carmelo Bene ricavò una sceneggiatura per un film mai fatto, poi trasformato in romanzo pubblicato con il titolo A boccaperta.
“Ci sono due luoghi, la città e la campagna. La città è Roma, il Vaticano, e ci vivono il Papa, i cardinali, i nobili, il ‘potere’. La campagna è Copertino in Puglia e tutto il Sud Italia dove vivono i poveri, i malati, i disperati. In città ci sono macchinari moderni e fanta-futuristici. In campagna si lavora ancora la terra, ci si muove a piedi o con i muli. Il mondo è governato dalla Chiesa, che esercita il suo controllo attraverso lʼInquisizione e la paura. Una Chiesa che tenta con ogni mezzo di fermare il culto eretico del ‘santo volante’ e il suo povero, ignaro ispiratore: ma il volto della più santa delle madri, la Madonna con Bambino, si insinuerà negli incubi e nelle fondamenta delle fortezze del potere…”.
Il punto di partenza del tuo lavoro è il libro A boccaperta di Carmelo Bene, pubblicato da Einaudi nel 1976 e poi ristampato nel 1993 da Linea d’ombra. Quali aspetti di questa storia ti hanno spinto a disegnarla?
Credo che in un primo momento, almeno per i primi anni, il mio approccio alla storia del A Boccaperta sia rimasto abbastanza superficiale. Cercavo di entrare nel linguaggio e nell’immaginario di Carmelo Bene e questo non mi riusciva. Solo quando ho iniziato ad “abitare” la storia e a portarla nel mio mondo sono riuscito a sviluppare un legame più profondo e quindi realmente significativo. Ma tutto questo processo è stato spesso un brancolare nel buio. Il che, credo, sia giusto. C’erano comunque una serie di elementi che mi interessavano molto. Sono rimasto colpito da questo santo così speciale, così fuori controllo. I suoi voli involontari e accidentali. Il suo rapporto con l’immagine della Madonna. Il suo imbarazzo nel compiere miracoli e nell’essere oggetto di attenzioni da parte di chi lo circondava. Il suo essere senza intenzione, senza peso. Mi interessava anche molto il rapporto con il potere ecclesiastico, che nel libro di Bene è prepotente, venale, repressivo.
In un breve testo alla fine del volume affermi che non avrebbe avuto senso riprodurre la storia scritta da Bene senza trasformarla secondo il tuo personale modo di sentire. Cosa c’è di tuo e cosa è rimasto del testo originario.
Per me non avrebbe avuto senso trasporre la storia di Bene e farne un fumetto. All’inizio ci ho provato e per fortuna non ha funzionato. Mio malgrado direi, davvero ce l’ho messa tutta. Poi ho capito che dovevo affrontare questo lavoro in un altro modo. Portare Giuseppe nel mio mondo, ma mantenendo quello che avevo intuito, e forse capito, dello “spirito” del libro di Bene.
Confrontarsi con Bene è impossibile. E controproducente. All’inizio mi ha condizionato nel male, paralizzando i miei tentativi, i primi abbozzi della storia. Volevo essere all’altezza del testo, ma come Giuseppe dopo aver “volato” ricadevo rumorosamente. Tutto questo avveniva nella mia mente, difficile anche solo cercare di spiegarlo. Bene era un “peso” di cui dovevo liberarmi, dovevo liberarmi dal desiderio di essere all’altezza di… Un giorno, per caso, disegnai un’inquisitore vestito di bianco, con una cravatta nera e gli occhiali da sole. Cavalcava un cavallo nero, con una croce in testa. Era qualcosa di nuovo, di mio. Da quel momento tutto il lavoro prese una nuova direzione. Iniziai a prendere le distanze dal lavoro di Bene. L’unica cosa che facevo, ogni tanto, era riascoltare il magnifico monologo dei cretini che si trova nel film Nostra Signora dei Turchi.
Il processo per arrivare a questa forma “finale” è durato più di dieci anni, quali sono state le maggiori difficoltà e le soluzioni che hai trovato per andare avanti?
È stata una lunghissima gestazione. Io non sono abituato a lavorare così, quindi la maggiore difficoltà, comune a tutte le fasi di questo lavoro, è stata dedicarsi per più di una settimana o più di un mese alla stessa cosa, con la stessa tecnica. Dopo un po’ di tempo la mia mente passava ad altro, si annoiava e aveva bisogno di novità. In quei momenti, il lavoro che avevo fatto mi sembrava brutto, senza qualità. Le varie versioni che ho fatto hanno una tecnica diversa, un approccio diverso al soggetto. Ma sono tutte versioni abbozzate, incomplete.
Non ho trovato nessuna soluzione per andare avanti se non appunto, andare avanti. Qualcosa mi spingeva a riprovarci, anno dopo anno. Ma è importante per me chiarire che questa forma “finale” è una della tante possibili, non l’unica. Questo lavoro poteva prendere tante direzioni, correndo (forse) il rischio di rimanere non concluso. Diciamo che questa è semplicemente la prima versione che riesco a concludere, a portare a termine.
Quando si conduce in porto un lavoro del genere tutto si risolve in un’intensa esperienza personale o ci sono insegnamenti, una “morale” non banale che può essere trasmessa anche all’esterno?
Queste esperienze sono molto personali. Mi sono trovato di fronte a delle difficoltà, sin dall’inizio. Difficoltà normali e necessarie. E non riguardavano semplicemente la questione di che cosa volessi raccontare ma soprattutto il come farlo. Al principio cercavo di farlo “adottando” un linguaggio narrativo che non era mio. Cercavo di inserire i miei disegni nelle strutture del fumetto, senza pormi troppe domande. Pensavo, ingenuamente, di poter fare fumetto semplicemente perché disegnavo. I vari tentativi falliti, interrotti, abbandonati mi hanno permesso di avvicinarmi col passare del tempo a un linguaggio grafico e narrativo che avesse senso per me e per la storia che volevo raccontare. Alla fine ci sono riuscito? Credo di esserci riuscito in parte. Molte delle questioni che ho sollevato nella mia mente durante questi anni non hanno trovato risposta, ma alcune sì. Mi dico allora che è solo un inizio. Un tentativo, un’esplorazione. E sento comunque la curiosità di proseguire.
Ne è venuta fuori un’opera che è apparentemente un fumetto, ma a cui mancano alcuni elementi base del fumetto, per esempio i baloon.
Il fumetto come viene inteso comunemente si caratterizza per certi elementi che lo contraddistinguono. Ma raccontare per immagini o con testo e immagini ha radici infinitamente più antiche. Testo e disegno possono tranquillamente raccontare senza il bisogno l’uno dell’altra ma nel fumetto trovano un territorio comune, una forza particolare che ha dimostrato di poter raccontare qualsiasi tipo di storia e suscitare emozioni come lo fa la letteratura o il cinema. Io mi sento più vicino, come disegnatore, al linguaggio del cinema che non a quello del fumetto. Lo storyboard che ho fatto prima di iniziare questa versione del mio libro era uno storyboard per un film. Ma non me ne sono reso conto subito. Nella mia testa c’erano delle scene, delle visioni simili a quelle di un film muto in bianco e nero e ho cercato di tradurle con i disegni per poi ordinarlo nelle pagine di un libro. Il mio libro che cos’è? Per semplificare chiamiamolo fumetto, per complicare pensiamolo come un film muto disegnato. Oppure un’esperienza visiva attraverso lo scorrere delle pagine di un libro.
Alla fine però ti sei convinto a inserire tra i disegni alcune frasi, che intervallano le tavole come didascalie di un film muto e che hai affidato a cyop&kaf. Che funzione hanno questi testi?
Beh, i film muti avevano spesso delle didascalie. Ma in realtà già dall’inizio, in accordo con Ratigher, l’intenzione era quella di inserire corti testi tra un capitolo e l’altro. Pensavo di scriverli io ma ovviamente avevo lasciato questo compito per la fine. Quando stavo per finire il libro mi sono reso conto che non riuscivo più a pensare ad altro che ai disegni. Allora ho chiesto a cyop&kaf, con cui avevo parlato tante volte di questo lavoro. Ho chiesto a loro senza esitazione perché sapevo che avrebbero capito il senso di quello che volevo dire. A volte completandolo, a volte arricchendolo e altre volte ancora permettendo ai disegni di volare veramente. I testi servono come punti di appoggio, come una voce narrante che si alza nel silenzio delle immagini. Nel passato avevo desiderato collaborare con loro su questo progetto, quando ancora cercavo una forma giusta… E sono molto felice che alla fine ci siamo riusciti.
Quali sono, se ci sono, i modelli nel campo del fumetto o delle altre arti con cui ti sei confrontato, e in che modo te ne sei servito?
Ho amato molto i fumetti. Ho amato Muñoz, Mattotti, Taniguchi, Otomo, Pratt, Breccia, la rivista Raw, Burns, Gipi, Moebius, Spiegelman, Pazienza, Altan, Klimowski e tanti tanti altri. Mi hanno fatto viaggiare molto quando ero più piccolo. Little Nemo, per esempio, lo ricordo come un’esperienza favolosa. Poi, a un certo punto i fumetti non mi hanno più dato la stessa soddisfazione. Oggi ammetto che da anni non riesco a leggere un fumetto, tranne rare eccezioni. Mi piacciono i lavori che lasciano spazio alla mia immaginazione, quando posso partecipare alla creazione della storia. Quando mi lasciano dubbi, estraneità, quando sono, in parte, incompleti. Ma non dev’essere un trucco narrativo. I disegni lo devono fare, più che il testo. Negli ultimi anni ci sono cose che mi hanno influenzato di più, principalmente il cinema, la pittura e il disegno. A volte la fotografia. E anche la musica, ma in modo diverso. Assorbo tutto e tutto entra a far parte del mio pensiero, del mio linguaggio, del mio vocabolario. In modo inaspettato e disordinato spesso, e ordinato a volte. I quadri di Bacon e le fotografie di Mario Giacomelli sono stati una grandissima fonte di ispirazione per questo lavoro in particolare.
Qual è stato il ruolo dell’editore nel processo creativo?
L’incontro con Ratigher è stato fondamentale, ma non direi per il processo creativo stesso, dato che quello era in parte già definito e avviato. Ma perché mi ha richiesto, dal primo momento, un ordine che non trovavo da solo. Ho dovuto riscrivere la storia, preparare lo storyboard e capire, finalmente, che storia, davvero, volessi raccontare. Fondamentale è stata anche la fiducia che mi ha trasmesso sempre, di cui avevo bisogno, abituato, come sono, a lavorare per conto mio. Fino alla fine ci siamo confrontati e ho trovato le sue osservazioni sempre precise e in sintonia con il mio lavoro. E questo è importantissimo.
Ci sono in Italia o altrove affinità con altre persone che tentano strade nuove per il fumetto? E in questo senso quali sono le direzioni che più ti attraggono?
Non sono realmente aggiornato sul mondo del fumetto contemporaneo. Credo che il raccontare per immagini abbia tante strade da esplorare e lo deve fare rompendo certe “regole” e portando il lettore o lo spettatore, che dir si voglia, verso territori meno agevoli. Trovo spesso che la fantastica unione tra testo e disegno presente nel fumetto faciliti troppo l’esperienza del lettore e che lasci poco spazio all’immaginario personale. Come in altre arti il fumetto, per evolvere, dovrebbe continuamente questionarsi, rompersi, auto-distruggersi per poi riformarsi. Perché ha già, in un certo senso, dimostrato di funzionare, di essere. Cosa viene dopo?
A me interessa molto esplorare come l’assenza di testo possa lasciare uno spazio narrativo con un’enorme potenziale. Dare meno punti di riferimento, storie meno lineari che evochino e suggeriscano piuttosto che raccontare e dire tutto. L’intenzione non è rendere la lettura difficile e frustrante ma più aperta, ambigua e che rappresenti in un certo senso una “sfida” per il lettore. Semplificare senza rendere semplice.
Le opere che mi hanno maggiormente colpito negli ultimi anni sono state Le fils du Roi di Eric Lambé, Les Jumeaux della coreana Jung-Hyoun Lee, Adventures sur une Île Deserte di Maciej Sienczyk, il lavoro di Olivier Schrauwen, Après la Mort, Après la Vie di Olivier Deprez e Adoplho Avril, Hortus Sanitatis di Frederic Coché, The Secret di Andrzej Klimowski. Seguo con molto interesse il lavoro di Joe Kessler e della casa editrice Breakdown Press e il lavoro del collettivo Le Gun a Londra e Oficina Arara in Portogallo. In Italia, il lavoro di Andrea Bruno, Giacomo Monti e Giacomo Nanni di cui sono molto curioso di leggere l’ultimo libro, Nel Mirino. Queste le cose che mi vengono in mente adesso.
Da alcuni anni curi una rivista internazionale di disegni, Le Petit Néant, qual è il rapporto tra Il divino inciampare e il tuo lavoro per la rivista?
L’idea della rivista Le Petit Néant nasce parecchio tempo fa. Ma il suo sviluppo e la sua forma sono state molto influenzate dalle riflessioni che accompagnano questo libro. In un certo senso, la rivista si pone le stesse domande che mi sono posto io e le lancia verso l’esterno. Domande senza risposta, intendiamoci. Non ci sarebbe Le Petit Néant senza le riflessioni nate dall’incontro con A boccaperta. Il rapporto quindi è strettissimo. La rivista suggerisce un rapporto diverso tra le immagini, tra le relazioni silenziose che queste possono costruire, le storie che possono evocare. E un tempo di lettura lento, continuo, rinnovato, mutevole. (luca rossomando)
Le prime presentazioni sono previste il 24 maggio alle 21 al Modo Infoshop di Bologna, il 5 giugno alle 19,30 alla libreria Giufà di Roma, il 15 giugno alle 19 al SMMAVE di Napoli. Inoltre a Bologna il 25 maggio alle 18,30 si inaugura una mostra di tavole originali all’Officina Margherita. La mostra sarà a Napoli dal 21 giugno al Nilotype, inaugurazione alle 18,30.
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