Genova. Sono le tre del pomeriggio e al varco Albertazzi nei pressi del terminal traghetti la scena è la stessa di sempre. I portuali a cincischiare, i camionisti a bestemmiare in silenzio, privi di forze. L’aria di chi si è arreso alla circostanza ed è stanco persino di litigare. Avrebbero dovuto saperlo. A poco è valso l’annuncio sui cartelli in autostrada, parecchi chilometri prima dei varchi di accesso: “Attenzione, 23 maggio sciopero porti di ventiquattr’ore”. Una scena simile l’ho vista l’anno scorso, stesso periodo più o meno, durante lo sciopero contro l’autoproduzione e per la sicurezza in porto.
Qualche camionista prova ad arruffianare un portuale ma è inutile. Una fila di camion si dipana al di qua dei cassonetti che bloccano il varco. I camionisti restano in cabina, uno di loro, napoletano, viene da Livorno e dovrebbe andare a Piombino. Qualche turista in motocicletta chiede di passare. Nulla. Fai vedere un po’ sta moto. C’è lo sciopero nazionale… Il varco è chiuso, c’è chi resta a presidiarlo, chi sfila nel corteo e chi si dà il cambio per recarsi al bar del circolo del CAP (Consorzio Autonomo del Porto), l’autorità portuale di un tempo, definita Autorità di Sistema Portuale dopo la recente riforma. Lì dentro ci ritrovi i vecchi in pensione che giocano a carte o a biliardo, oppure la solita banda di soci che quando si tratta di scioperare partecipa, magari è scettica, magari sa quello che si nasconde dietro le apparenze – soprattutto in tempo di campagna elettorale –, eppure è là. A fare la spola tra il bar e il varco, sotto il sole. A litigare bonariamente per ammazzare il tempo. O a lanciare i fumogeni verso la nave saudita carica di armamenti per Ryiad – qualche giorno prima a ponte Etiopia.
La sala chiamata è poco distante. L’ho raggiunta alle nove di mattina, mentre il Console della Compagnia si apprestava a prendere il microfono e a spiegare ai circa duecento soci presenti come sarebbe andata la giornata. Nel brusio si sente appena la sua voce che spiega che si parte dalla sala chiamata e si arriva a palazzo San Giorgio, sede dell’Autorità, poi lì una delegazione sale, e poi basta. Sandro, retromarcista, ha serigrafato le bandiere con scritto sopra CULMV, Compagnia Unica Lavoratori Merci Varie. Le ralle sono in fila appena fuori la sala chiamata, nel piazzale San Benigno che ospiterà a fine giugno la quinta edizione della festa dei camalli. Nel frattempo, colazione a base di alcol e focacce, perché sono le nove ma alcuni sono svegli dall’alba, e c’è chi presidia i varchi da Voltri a ponte dei Mille, passando per Sampierdarena.
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Napoli. Ore nove. Il traffico su via Acton è bloccato. Le auto avanzano a singhiozzo schiacciate tra le transenne che delimitano il porto e i lavori in corso. Il molo Beverello straripa di turisti e pendolari del mare. Dal varco Pisacane mezzi su quattro ruote entrano nello scalo. Fuori il palazzo sede dell’Autorità Portuale gruppetti di persone con bandiere e qualche striscione. Gli avventori tirano dritto, ognuno verso la propria destinazione.
A dispetto dello sciopero, la vita nel porto di Napoli nelle prime ore della mattina di giovedì 23 maggio, scorre non diversa dal solito. Ai varchi si lavora, fatta eccezione per qualche disagio, nonostante una protesta considerata di importanza vitale per lo scalo partenopeo, così come per gli altri porti italiani i cui lavoratori hanno o avrebbero dovuto incrociare le braccia. Autoproduzione e rinnovo contrattuale. Sono questi i temi caldi, tanto più qui, dopo che lo scorso 2 maggio la compagnia GNV ha provato a fare effettuare le operazioni di derizzaggio al proprio personale marittimo, a bordo della nave Crystal, invece che ai portuali. Un tentativo (bloccato dai lavoratori della CULP, la cooperativa dei camalli napoletani) che ha esplicitato un’intenzione, quella degli armatori, già manifesta da tempo: l’introduzione dell’autoproduzione all’interno del porto. Una pratica che ha un’unica motivazione: il taglio dei costi, a discapito dei lavoratori; i marittimi, che andrebbero a svolgere mansioni non spettanti a loro; e i portuali, per i quali il lavoro diminuirebbe drasticamente, con conseguente crollo dei livelli salariali. Lo sciopero ha anche l’obiettivo di mettere pressione sulle trattative per il rinnovo del contratto nazionale di lavoro, al momento in fase di stallo. Eppure, sono le dieci e mezza, e i lavoratori in presidio sono appena una cinquantina.
Vita Convertino, segretaria regionale della Filt-Cgil-Campania, cerca di compattare i presenti. «Facciamoci una foto insieme dietro lo striscione, che dalle altre città ne arrivano tante!». Parte qualche coro, si accendono i fumogeni. I quadri cercano di vedere il bicchiere mezzo pieno. C’è un po’ di scoramento invece nei lavoratori, soprattutto nei portuali della CULP, i più numerosi, quelli che pagherebbero direttamente le conseguenze dell’autoproduzione. «Sì, ma i lavoratori delle imprese dove stanno?», si sente dalle retrovie. In effetti, i dipendenti Conateco e Soteco, Gnv, Tirrenia, Flavio Gioia sono pochi. Le risposte a una domanda forse un po’ ingenua – come mai? – sono sempre le stesse.
Prima di tutto il ricatto. Il clima che si respira nel porto, e i rapporti di forza tra aziende e lavoratori, non pendono certo a favore di questi ultimi. Il caso più emblematico è quello che riguarda Conateco e Soteco, aziende controllate dalla multinazionale MSC, che in questi anni hanno effettuato una serie di licenziamenti pretestuosi, soprattutto di lavoratori sindacalizzati, talmente contestabili che si sono conclusi con il reintegro imposto dalla magistratura. Ma la paura dei lavoratori è inversamente proporzionale al desiderio di esporsi. L’altro fattore è la latitanza dei sindacati confederali negli ultimi dieci anni, e la mancanza di fiducia da parte dei lavoratori nei loro confronti, difficile da colmare ora che le tre sigle si muovono, invocando “rivoluzioni portuali” e cantando Bella Ciao. Basti pensare che nel “caso Conateco” a sostenere la battaglia degli operai e i loro procedimenti giudiziari, è stato il sindacato di base SiCobas, mentre persino la Cgil abbandonava i suoi iscritti al proprio destino. Sono le undici, quando arrivano proprio una ventina di lavoratori SiCobas con le loro bandiere rosse. Rimpolpato il numero dei manifestanti, il gruppo si muove in corteo all’interno del porto.
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Questa mattina, verso le sei e trenta, a un certo punto è arrivato un uomo, è sceso dalla macchina, s’è guardato intorno, ha individuato in quelle facce assonnate i responsabili del blocco del varco nel porto di Genova, e poi ha chiesto: «Con chi bisogna parlare qua?». Era uno della Digos. I portuali si sono avvicinati e lui gli ha detto più o meno così: «Guardate io vi avviso, cercate di non esagerare, le regole del gioco sono cambiate, con il decreto sicurezza se fate un blocco stradale rischiate dieci anni, io ve lo dico… non ci metto niente a sapere i vostri nomi, ci sono le telecamere.
Insomma, non cagate fuori dal vasetto altrimenti vi rovino, fate i bravi e non rompete troppo il cazzo…». Gianni, socio di Compagnia, figlio di soci di Compagnia, retromarcista come Sandro, un numero di matricola che per ricordarlo basta che ricordi le due e mezza, mi dice che non era mai successo prima.
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Dopo una lunga traversata, il corteo arriva ai cancelli di Conateco. Gli interventi al megafono spiegano le ragioni dello sciopero. Gli impiegati che si affacciano alle finestre degli uffici, e gli operai al lavoro, vengono incitati invano a unirsi alla manifestazione. Il corteo blocca l’ingresso di alcuni camion che dall’autostrada vorrebbero entrare in porto. Il traffico si ferma, i camionisti cominciano a spazientirsi. “La banchina non si tocca!”, è il coro ricorrente. Dopo mezz’ora ci si sposta e si torna in presidio verso l’Autorità Portuale.
«Fa male vedere che su quasi trecento dipendenti, siamo scesi in strada in dieci», spiega Francesco Cotugno, uno dei licenziati e poi reintegrati da Conateco, oggi Rsa dei SiCobas e prossimo a un probabile secondo licenziamento. «Ho fatto una semplice domanda a un dirigente, sono stato sospeso per quindici giorni e accusato di averlo minacciato. Io vado avanti, perché so che la ragione è dalla mia parte, ma non tutti riescono a ragionare così: quando sono rientrato in azienda, gli altri non ci credevano. “Conateco non può perdere”, continuavano a dire».
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A Genova sono le ralle ad aprire e chiudere il corteo. Ci sono almeno duecentocinquanta persone. Il segretario nazionale della Filt-Cgil parla di un successo a livello nazionale, ma da Gioia Tauro arrivano notizie discordanti. Esplodono petardi, suonano i clacson, s’intonano i primi cori. All’altezza del varco Albertazzi si aggiungono gli altri spezzoni del corteo. La giornata sarà lunga. Per le 18,30 è previsto un comizio di Casapound in piazza Marsala e l’accesso è blindato da un numero spropositato di forze dell’ordine. La giornata terminerà con il corteo che si opporrà al comizio dei fascisti, e poi all’orizzonte c’è uno spareggio salvezza e una trasferta a Firenze per i tifosi del Genoa, che vengono presi per il culo dai rivali doriani nel corso del corteo.
Antimilitarismo, calcio, antifascismo. I discorsi si mescolano mentre si cammina a passi lenti sotto al sole, costeggiando il mare, superando un traghetto e una nave da crociera. Le gru di Paceco sono alzate. Le ragioni dello sciopero coincidono con la rottura della trattativa sul rinnovo del contratto collettivo nazionale: governo dell’automazione e introduzione di innovazioni tecnologiche nelle operazioni, aumento dei minimi retributivi in ragione dell’indicatore della crescita dei prezzi al consumo, creazione di un fondo a carico delle imprese dei terminal per sostenere chi resta tagliato fuori, autoproduzione, rispetto dell’articolo 15bis.
La controparte padronale – spaccata al suo interno – non ne vuole sapere, anche se tra loro c’è un armatore che strizza l’occhio ai portuali, dicendo di essere contrario all’autoproduzione – lo stesso armatore vuole solo marittimi italiani a lavorare. Contraddizioni in seno al capitale, dicono. Di ritorno dal corteo alcuni portuali mi spiegano i dettagli delle rivendicazioni in questo mondo caratterizzato da imprenditori marittimi che sarebbero capaci di raschiare il fondo del barile pur di non consentire la creazione di un fondo per i lavoratori usurati da questo mestiere. Una controparte che provoca in maniera sistematica da anni ormai, che mira ad avere un mercato delle braccia, e gente che dall’altra parte respinge ogni attacco. Almeno questo è ciò che appare da Genova, davanti agli occhi di un’Autorità Portuale inerme, incapace persino di elaborare un piano dell’organico del porto degno del primo scalo italiano per volume di merci movimentate. (andrea bottalico / riccardo rosa)
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